#BF-CHOICE
L’elettronica percussiva e risonante che apre “Stranìa” rimanda a vibrazioni sotterranee, a un’attività di scavo e di memoria che, fin dalla prima nota, mostra la confidenza di chi conosce bene il territorio, calabrese, che sta attraversando e, proprio per questo, sa mettere in felice tensione i limiti della propria conoscenza con inedite modalità di esplorazione. E questa forza centripeta ad aver acceso un’idea nel trio che dal vivo ha raccontato l’album “Ἐρημία/Eremìa”: Ettore Castagna (lira, chitarre malarruni, voce), Peppe “YoSonu” Costa (batteria, elettronica, voce e canto difonico) e Carmine Torchia (basso elettrico e voce). Si è sprigionata così una felice attività danzante e centrifuga che ha acceso il gruppo Senduki (e molte notti danzanti) coinvolgendo due ulteriori voci: Mimmo Morello (zampogne, fiati, voce) e Elisa Surace (voce solista e tamburello). Ne è nata una intensa attività compositiva e concertistica che ha prodotto anche la registrazione di dodici brani fra giugno 2024 e gennaio 2025, un lavoro ricco che qui esploriamo con una decina di domande cui hanno risposto in modo corale.
Come vi siete incontrati e quando avete suonato tutti insieme per la prima volta?
Peppe Costa - Eravamo in viaggio per il live dell'Eremia trio al festival di Loano ed Ettore mi disse che voleva farmi sentire l'ultimo album che aveva pubblicato (“Lira Sona Sona”), un lavoro di natura filologica. Mentre ascoltavo uno dei brani, di voce e marranzano, è stato immediato pensare a dei filtri da applicare alle voci, immaginandoci l'aggiunta di un basso ipnotico e scuro col movimento di una batteria quadrata e aggressiva. Dissi "Ettore, questo è un pezzone dub, ma ancora non sa di esserlo". Proseguendo con l'ascolto anche un altro brano mi diede suggestioni simili. "Rifacciamoli in chiave dub, Ettore". La sua risposta fu "va bene, Carmine al basso c'è, so io chi chiamare per completare la formazione." Senduki è nato così.
Ettore Castagna - Direi che è tutta colpa mia. Avevo vari progetti in corso e conoscevo musicisti di ambiti diversi. Mi veniva da dire mondi ma poi sarebbe stato Star Wars. Mi è venuto in mente che sarebbe stato divertente rimescolare un po’ le carte. Io ho fatto la squadra, ma poi la giocata è venuta bene con tutti. È un momento in cui vedo molta stagnazione nel mondo musicale italiano. Non abbiamo ambizioni messianiche comunque. Ma magari provare a fare qualcosa di nuovo con cose molto vecchie e cose molto nuove.
Ettore Castagna - Il solo punto di contatto direi che sono io. “Eremìa” è un album di canzone d’autore dove contano dialetti, lingue minoritarie e un suono quasi esclusivamente acustico, marcatamente “etnico” in vari punti. “Stranìa” è un’apertura di finestra verso linguaggi che apparentemente non dovrebbero capirsi ma che invece si ritrovano benissimo. “Eremìa” è il discorso di un navigatore solitario che imbarca amici lungo la rotta. “Stranìa” è un viaggio di cinque musicanti che vogliono intrecciare i loro discorsi.
Suonate “musica transitoria da una realtà residuale”, cioè?
Mimmo Morello - Io so suonare soprattutto come ho imparato dai miei maestri contadini e pastori. Poi cerco nella mia memoria e trovo l’incontro con musicisti che vengono da mondi lontanissimi dal mio. Sì, forse è davvero giusto dire che può sembrare qualcosa che parte dal residuale ma oggi è difficile non essere schiacciati dal mainstream e dal pop. E allora rovistare nelle piccole cose è un atto di protesta vero e proprio.
Ettore Castagna - Una cosa terribile e magnifica della stessa vita è che niente resta. Tutto passa. Una
volta, stavo camminando fra le rocce del Monte Athos, fuori da una vecchia casetta trovo scritto: “Come i sogni svaniscono, come i fiori appassiscono così la vita dell’uomo”. Non ambiamo alla grande musica. Cerchiamo la grandezza effimera di questo stesso momento. Sappiamo che passerà. Conta la sincerità e l’amore con cui stai suonando. O hai suonato.
Da un lato lira, zampogna, doppi flauti, malarruni, tamburelli; dall’altro basso e chitarre elettriche, batteria acustica ed elettronica, loop: da dove avete cominciato e come li avete fatti incontrare?
Ettore Castagna - Abbiamo cominciato da subito. Il patto fondante era che ognuno entrava in scena con la propria storia musicale. Doveva funzionare immediatamente oppure si sarebbe scelto di fermare subito le macchine. Invece ha funzionato. Il sound di Senduki è nato immediatamente. Un piccolo miracolo.
Peppe Costa - Abbiamo iniziato da alcune tracce aperte fornite da Ettore, di registrazioni sue, per creare un suono che fosse l'obiettivo del disco e allo stesso tempo il comune denominatore di ogni brano. Abbiamo fatto esercizi di stile su quelle registrazioni, per cominciare poi, dopo esserci visto in sala, a lavorare al suono vero e proprio di ognuno. Abbiamo proceduto in maniera mista, registrando live in studio, ma anche separatamente e da più parti d'Italia (viviamo in città diverse). Una volta acquisite le registrazioni io mi sono occupato di immaginare, montare ed editare il suono del singolo strumento e del
brano in questione. Di alcuni brani la struttura si è mantenuta identica a quella nata in sala prove, per altri brani (Senduki, ad esempio) ho assemblato e dato forma a registrazioni fluide e non arrangiate assieme.
Per presentarvi avete scelto “Fòcu & palùmbi”: cosa racconta di voi e della vostra musica?
Ettore Castagna - Ha contato molto la collaborazione con un artista del calibro di Saverio Autelitano capace di realizzare un fumetto onirico, un video nel quale l’olio d’oliva incontra Tim Burton. È stato divertentissimo e abbiamo scelto uno dei pezzi che più costringono a ballare. Una specie di allegra minaccia.
I “Calanchi” aprono e chiudono l’album e ai calanchi sono dedicate le sei foto che accompagnano il libretto: che tipo di “contenitore” offrono agli altri dieci brani, alla vostra musica?
Carmine Torchia - Più che contenitori, le canzoni di “Stranìa” sono “concetti spaziali”, sembrano quasi quei famosi tagli su tela di Lucio Fontana, qualcosa cioè che va oltre la superficie (in questo caso la tradizione) oltrepassandola con atti contemporanei.
Peppe Costa - Si tratta dell'idea di avere una intro e una outro che è nata prima per il live e
successivamente si è spostata pure sul disco. È la preparazione al "rito". I due "Calanchi" accompagnano all'entrata e all'uscita del viaggio sonoro. Lo fanno con batterie elettroniche e basso acido che abbracciano la zampogna prima e la lira poi, cercando un dialogo alla pari e non di sola riverenza.
Qual è la lingua delle vostre canzoni? Da dove viene e come contribuisce a dar forma alle vostre sonorità?
Ettore Castagna - Tutti i giorni ci esprimiamo nei nostri dialetti ma pure in greco, in francese, in italiano, in inglese. È un passaggio naturale pensare di cantarci, magari mescolando e divertendosi. Essere sé stessi pure nei testi male male non fa. Nell’album troverai materiale tradizionale che abbiamo riproposto rispettandolo integralmente oppure composizione.
Dub, elettroacustica, world: quali sono le vostre fonti di ispirazione in questi ambiti?
Carmine Torchia - “Stranìa” è un album mistilineo, proprio perché arriviamo da ambiti differenti: esperienze sperimentali, scritture autoriali, ricerche sul campo, ma con ascolti che ci accomunano perché imprescindibili.
Ettore Castagna - Cerchiamo di restare fedeli alla nostra eterogeneità. È una idea gustosa che una melodia contadina magari con una voce antica, lacerata, di testa si mescoli con un loop e con una tessitura elettrica.
Ogni brano costruisce la sua identità magari ricordando vagamente Dj Punjabi o Roger Waters, la cosa importante che faccia camminare tracce musicali assolutamente ed inconfondibilmente nostre. La soluzione Dub non schiaccia mai nell’angolo la zampogna o la lira.
Come hanno influenzato le vostre decisioni riguardo all’album i concerti precedenti alle registrazioni in studio? Come lavorate agli arrangiamenti?
Peppe Costa - Un paio di brani li abbiamo composti a distanza ed erano quasi chiusi ancora prima che ci vedessimo in sala prove per allestire. Tutti gli altri hanno avuto una genesi abbastanza semplice, un testo proposto da qualcuno sotto il quale costruire il movimento. Ci sono brani nati e confezionati abbastanza velocemente, arrangiati anche abbastanza velocemente. Altri hanno avuto bisogno di mesi di lavoro di arrangiamento, durante il quale ognuno proponeva idee sul proprio strumento o sulla struttura. Penso di poter dire che “Stranìa” sia un lavoro orizzontale, dal punto di vista dell'importanza del contributo di ognuno degli elementi presenti.
Elisa Surace - I concerti precedenti alle registrazioni sono stati fondamentali: ci hanno permesso di far camminare idee, ed osservare reazioni, dove la musica respirava meglio, dove invece chiedeva spazio o silenzio. È stato un tempo di esplorazione viva, che ha nutrito l’album fin dalle fondamenta. Veniamo tutti da ascolti, linguaggi e percorsi artistici profondamente diversi mondi sonori lontani, talvolta persino inconciliabili sulla carta. Eppure, quando lavoriamo insieme, accade qualcosa di sorprendentemente
naturale: non costruiamo gli arrangiamenti a tavolino, non inseguiamo una forma, non misuriamo gli ingredienti. La musica si dispone da sé, come se fosse già lì, in attesa di essere rivelata. L’intesa tra noi precede il ragionamento: è uno scambio sottile, spesso non verbale, fatto di ascolto reciproco, di rispetto degli spazi, di fiducia nei silenzi e di estrema cura del suono. Ogni brano è una piccola alchimia che nasce non da un compromesso, ma da una sintesi spontanea. È un canto con una polifonia che non si è cercata ma si è riconosciuta all’istante.
Dove suonate? Chi in Calabria e altrove ha risposto a questo invito al ballo?
Ettore Castagna - Abbiamo grande simpatia per il pensiero libertario quindi “Nostra Patria è il Mondo Intero”. Anche musicalmente. La Calabria è un punto di partenza perché, ad esempio nel mio bagaglio personale c’è molta musica contadina della regione, però alla fine rimane fondamentale lo “stay human”. In tutto questo cercare la pulsazione fondamentale verso il ballo è un processo che viene naturale. Nell’alchimia dell’incontro che il ballo sia in Calabria o meno conta relativamente. Non ci interessa la limpieza de sangre ma riportare alla luce in un modo tutto nostro il precipitato di danze e di canzoni depositato nelle nostre memorie. Può essere Heidelbergh o Zungri, cambia poco.
Elisa Surace - L’album è uno spazio intimo: ogni suono è scolpito, ogni parola pesa come pietra rituale. È una forma concentrata, meditata. Dal vivo la musica si disancora, si fa sudore e respiro. Si distende, si dilata, cambia pelle. I brani si allungano come canti antichi che non vogliono finire, si aprono a improvvisazioni, a deviazioni necessarie. Il ritmo si modula sull’ascolto reciproco, sul sentire condiviso con chi ci sta davanti. Ogni concerto è un rito irripetibile, plasmato dall’energia e dal dialogo con chi ci ascolta in quel momento. E poi c’è il corpo non solo il nostro, ma quello collettivo che suggerisce, risponde, canta, danza. È lì, in quella combustione emotiva, che il “fòcu” muta in “palumbi” e viceversa.
Peppe Costa: L'improvvisazione sicuramente. Non eseguiamo l'album come sola riproposizione di sequenze e soluzioni che hanno funzionato in studio. Piuttosto, partiamo dall'album per sviluppare i brani su territori altri, estendendoli, ricomponendoli, edificandoli nuovamente, volta per volta, concedendoci così il piacere di non sapere sempre dove ci porteranno le proposte estemporanee di ognuno. È come regalarsi una scoperta alla quale segue il modo di ognuno di "stare" in quell' avvenimento musicale.
Senduki – Stranìa (AlfaMusic/EGEA, 2025)
Per una volta, cominciate dal penultimo brano, dalla prima parte di “Pàru cerca pàru”: non ve ne pentirete mentre ascoltate l’incontro fra cicale e zampogna (per inciso, una zampogna “a paru”, con le canne di canto della stessa lunghezza). L’incedere ritmico delle cicale disegna un vasto spazio sonoro estivo amplificato e inciso dalle architetture verticali prodotte da soffi sovrapposti della zampogna. Questa composizione di Peppe Costa sembra dar forma sonora a quel che scrive Walter Benjamin in “Scavare e ricordare”: “Chi desidera approssimarsi al proprio passato sotterrato deve comportarsi come un uomo che scava. Fondamentale è che non abbia paura di ritornare varie volte sulla stessa materia - spargendola come se spargesse la terra, rivolgendola come si rivolgono le zolle”. Emerge qui un terreno di incontro con il lavoro di ricerca musicale di Ettore Castagna. Nel suo quarantennale percorso discografico, ogni dieci anni fa capolino un lavoro in cui gli strumenti della tradizione convivono con quelli della “modernità”, con l’elettricità, come è legittimo aspettarsi da chi ha provato ad accostarsi a lire e zampogne mentre veniva strattonato dal punk. È il caso degli album con due diverse formazioni dei Re Niliu nel 1994 e nel 2015, degli inediti registrati con Mankikani vent’anni fa, e ora del debutto di Senduki. E ora veniamo pure alle batterie elettroniche e al basso elettrico dei due “Calanchi” posti a incipit e chiusura dell’album, sorta di acque piovane a modellare solchi nelle rocce argillose da cui emerge la luce di cui sono capaci zampogna e lira, preludio e poi eco all’intenso lavoro (anche in chiave compositiva) svolto a dieci o sei mani nei restanti nove brani. “Zingaròta” solletica immediatamente la memoria a breve termine trasponendo la simbiosi cicala-zampogna in scacciapensieri/malarruni-voce, quella di Elisa Surace. Il pensiero va alla recente, splendida versione, cantata da Jenny Caracciolo in “Lira sona sona” (2023): colpisce nell’arrangiamento di Senduki non tanto il “fragore” messo in campo dalla sezione ritmica, quanto, piuttosto, l’abilità nel disporre la paletta sonora a disposizione - dal silenzio, alla percussione, al coro – in modo da cucire un vestito acustico che mantiene sempre viva l’attenzione di chi ascolta/balla. Ugualmente strategica si mostra la scaletta che alterna serenate ancorate a una chitarra (elettrica che rimanda alla cadenza di una battente, “Chitarra si’ di lìgnu”) all’esplicito invito alla danza (“A bàllu”) alla filastrocca “Fòcu & palùmbi” cui è stato dedicato anche un video, realizzato da Saverio Autellitano che nell’animazione grafica parte dai giochi di carte per passare in rassegna un’affollata galleria di personaggi. Alla vorticosa parte vocale, sostenuta da percussioni, malarruni e basso, si alterna il respiro dell’organetto e le invenzioni vocali-elettroniche di Peppe Costa. Il malarruni si sdoppia piazzando una prima fonte sonora grave a sinistra e una seconda, più acuta, a destra per introdurre “Palòri d’amùri” che alle atmosfere romantiche preferisce il pressante e ossessivo lavoro della sezione ritmica su cui si incalzano la lira, nel registro più alto, e i bassi. A questo punto, all’appello manca il flauto che arriva puntuale nell’introduzione dell’ariosa “Malaspìna”, arricchita dall’accompagnamento di chitarra battente che poi diviene protagonista, ancora insieme al flauto, in “Regina di li hiùri”. All’organetto è affidata l’apertura del brano composto da Ettore Castagna e Mimmo Morello “Basta ‘n’accòrdu” in cui Castagna annuncia di non voler più cantare e, invece, per una volta è lui a dar voce ai versi, ma tutto torna, perché la voglia di nascondersi e di non cantare resta all’interno di una pena amorosa. Già detto che “Pàru cerca pàru” e “Calanchi” chiudono la scaletta, il gran finale è, di fatto, affidato a “Senduki”, altra composizione cui contribuisce tutto il quintetto e in cui il gruppo è chiamato ad esprimere tutta l’energia di cui è capace, con gli ostinati ossessivi di percussione a far da carburante lungo tutti i cinque minuti del brano, per poi interrompersi bruscamente, lasciando al timpano e alla zampogna l’ultima parola.
Alessio Surian