Brìghde Chaimbeul, piper dell’isola di Skye, è ormai di casa in queste pagine: ne abbiamo parlato per la prima volta in occasione del suo live all’English Folk Expo del 2019, poi abbiamo accolto con entusiasmo i suoi due lavori, “The Reeling” (2019) e “Carry Them with Us” (2023). Insomma, di parole ne abbiamo spese per restituire la dimensione artistica di questa suonatrice di Scottish smallpipes, la cornamusa a mantice dal timbro morbido, caldo, rotondo e avvolgente, dal volume contenuto, la cui espressività si articola attraverso variazioni ritmiche e ornamentazione. Nativa di lingua gaelica e strumentista prodigio, Brìghde (classe 1998) è profondamente radicata nella cultura musicale e folklorica delle isole e delle Terre Alte di Scozia. Oggi si distingue come figura centrale nella rinascita dell’interesse verso uno strumento che rischiava l’oblio, nonostante la fioritura di costruttori e il revival a partire dagli anni ’90 del secolo scorso. La proposta di Chaimbeul è tanto radicata nella tradizione quanto innovativa. In pochi anni, ha calcato i palchi di tutto il mondo, non solo all’interno del circuito folk/tradizionale: si è fatta apprezzare anche da pubblici avantgarde, poco avvezzi alle pipes. Ha suonato al WOMEX 21, al festival Le Guess Who? di Nijmegen e ha collaborato con Caroline Polachek. Le cronache raccontano che, sul palco principale del Supersonic Festival di Birmingham nel 2024, sia riuscita a ridurre al silenzio un pubblico non proprio a corto di alcolici. Del suo terzo album, intitolato “Sunwise”, dice: “Questo disco segue l’abbraccio del tempo invernale; il calare dell’oscurità, il freddo, il rivolgersi all’interiorità. Ma anche le usanze della stagione e il ritrovarsi per i ceilidh: canzoni e storie raccontate attorno al fuoco; dove i confini tra realtà e immaginazione si confondono.” In un certo senso, “Sunwise” si presenta come un lavoro ancor più improntato al solismo rispetto a “Carry Them with Us”, che era stato condiviso con il sax del canadese
Colin Stetson. Chaimbeul racconta di aver trascorso gli ultimi due anni suonando dal vivo in solo: “Quindi è lì che mi trovavo naturalmente al momento della registrazione; la maggior parte dei collaboratori è arrivata dopo che avevo già registrato le mie parti.” Fa eccezione “Sguabag/The Sweeper”, registrata dal vivo con altri tre suonatori di cornamusa irlandese (John McSherry, Francis McIlduff e Jamie Murphy).
Chiave d’accesso a questo lavoro è “Dùsgadh” (Risveglio), in cui subito il bordone ci avvolge con continuità nel suo prolungato incedere (sei minuti): via via che il brano si allunga, emergono sottili variazioni, cellule e spostamenti melodici che evocano i mutamenti emotivi. In “A’ Chailleach” (che significa “La Vecchia”) ritorna il sax di Stetson. Qui si richiama la figura mitologica della Cailleach Bheurr, portatrice dell’inverno: “è come se si stesse svegliando, camminando per le brughiere col suo bastone, assicurandosi che nessun filo d’erba verde cresca e che l’aria resti pungente di gelo”, racconta Brìghde. Ci si immerge in una struttura minimalista, il brano lascia trasparire una certa inquietudine nel suo sviluppo che si fa via via più vorticoso. Chaimbeul interviene in voce, cantando nello stile delle waulking songs. Il successivo “Kindle the Fire” è un interludio con field recordings (il crepitìo della legna sul fuoco di un camino), seguito da “She Went Astray”, dialogo tra voce e cornamusa che dà forma a una danza la cui fonte è un’incisione d’archivio dei primi anni ‘30. “Bog an Lochan” (La palude del piccolo lago) è il primo singolo del disco e presenta una melodia tratta da una reel scozzese tradizionale. “La credenza gaelica non riconosce una Terra delle Fate o un Regno diverso dalla superficie terrestre su cui vivono e si muovono gli uomini. Le loro dimore sono sotterranee, ma è sulla superficie naturale della terra che le Fate trovano nutrimento, pascolano il loro bestiame e vagano alla ricerca di cibo. Il primo giorno d’inverno e l’ultima notte dell’anno sono momenti prediletti per gli incontri con le fate, così come le notti tempestose, nebbiose e piovose. In queste occasioni, esse lasciano le loro dimore sotterranee e portano via chiunque degli umani trovino indifeso, incustodito o incauto”. È un intreccio di aerofoni a mantice a trionfare in “Sguabag/The Sweeper,” eseguito insieme ai tre assi irlandesi suonatori di uilleann pipes, di cui si è detto sopra.
Procede fluidamente “Duan”, dove l’organo di Seamus Heath si
affianca alle pipes nella sezione finale, prima che il brano accolga lo spoken word di Aonghas Phàdraig Chaimbeul, padre di Brìghde, che recita una filastrocca di Capodanno (Hogmanay), mentre in sottofondo si percepiscono ancora lo scoppiettio della legna del camino. Il brano conferma ancora una volta il legame profondo con le credenze precristiane e la tradizione orale. La filastrocca accompagnava l’oidhche challain: “una processione disordinata che faceva tre giri solari (sunwise) attorno a ogni casa del villaggio, spesso preceduta da un suonatore di cornamusa e recitando, giunti alla porta, questa filastrocca”, spiega Chaimbeul. “Anche se il ‘caisean’ (incantesimo) di Hogmanay e non si segue più in quel modo, mio padre lo ricorda dall’infanzia, e ricorda quella rima. È cresciuto a South Uist negli anni ‘50.” Il brano di chiusura – della durata di un minuto – “The Rain Is Wine and the Stones Are Cheese”, ci porta al cospetto del canntaireachd, il metodo per vocalizzare senza parole la musica per cornamusa, impiegato come sistema di apprendimento per tramandare oralmente le melodie tradizionali, senza ricorrere alla notazione scritta. Brìghde è qui in coppia con il fratello Eòsaph, a suggellare la notte più lunga – e quindi più buia – dell’anno.
L’incanto di Brìghde Chaimbeul risiede nella sua abilità tecnica e nella sua capacità di produrre un suono contemporaneo e sperimentale utilizzando uno strumento tradizionale in veste solista, conoscendone a fondo i codici musicali e vivendo intensamente il legame con i luoghi e con la ritualità del passato. Un segno, questo, anche dell’intimo rapporto dell’artista con la natura, ma che al contempo ne rivela la dote di narratrice sonora e interprete dall’orecchio aperto, esponente di una tradizione vissuta in maniera dinamica, impegnata a scrivere una nuova e sostanziale pagina per la musica scozzese gaelica del XXI secolo.
Ciro De Rosa
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