Bretagna, Spirito Aperto

La lingua bretone ama costruzioni drammatiche e tragedie lugubri o spaventose, i suoi versi ne traboccano; nelle traduzioni letterali dei versi (in primis in quella francese) appaiono forse un poco superflue ed esagerate ma così non è. Infatti, nel momento supremo il racconto diventa forza e realtà, incatenata a vocaboli locali terrificanti e silenzi spettrali, le sillabe giungono a risuonare nella pelle e mettono i brividi. Questo diventa lampante soprattutto in canzone, lo zenith è raggiunto nei celebri gwerzioù. Il gwerz è una saga, entrare nel Barzaz Breizh equivale a farlo nel Kalevala finlandese dove sono raccolte le gesta del mitico Kaleva, patriarca dell’intera stirpe finnica (vedi anche la saga estone del Kalevipoeg). “Gwerz” è una parola che significa “ballata”, “lamento”, racconta una storia tragica che va dall’aneddoto all’epopea storica o mitologica, il modo di cantarlo, anche se oggi stilisticamente evoluto grazie a personaggi celebri quali Andrea Ar Gouilh, Yann-Fañch Loeiz Kemener o Denez Prigent, resta quello primordiale. In antichità il gwerz era chiamato dai cantastorie “lais” ovvero “poemetto” per differenziarlo da canti religiosi, leggendari, festaioli o amorosi, che sono i “kentel” (anche “son” o “zon”). Non è un racconto lineare ma successione di quadri divisi in atti, proprio come le opere teatrali. Ascoltarlo vuol dire accettare di viverlo in prima persona, entrare profondamente in un mondo drammatico e sempre nel momento preciso in cui l’avvenimento accade. Veder svolgersi sotto i propri occhi, in tutta la loro intensità, quadro dopo quadro. Non lo si può ascoltare distrattamente poiché è esigente e domanda totale adesione, non si usano solamente le orecchie: senza attenzione, approvazione, completa immersione non si ascolta veramente un gwerz bretone, si ascolta qualcosa d’altro. I gwerzioù sono cultura evolutiva, saggezza popolare rappresentano interrogativi e movimenti che da secoli, ritmano stagioni e epoche. Nelle antiche società rurali dove nacquero, gli individui non sempre erano in grado di svolgere da soli, i compiti richiesti dalla dura vita agricola e vivere in società significava aiutarsi a vicenda, far fonte comune a quotidiane necessità
vitali. Ce ne sono anche atti a compiere la specifica funzione di un dato momento, con un senso preciso (talvolta riprovevole come quello di far piangere una sposa). Altri donano voce all’espressione umana più intima, al terzo mondo dei Celti (“Ar bed arall”), sono canti in collegamento con le sfere celesti, emozione di un istante sorto dal passato e traccia che si iscrive in una storia infinita. Il gwerz rappresenta il blues della Bretagna e in lingua bretone è detto al femminile, al contrario che nel resto dell’intera Francia. Inoltre nell’antica poesia celtica si ritrovano sempre numerosissime rime interne ai versi, c’è chi sostiene che essere in grado di cantarla sia essa stessa già una forma di rima. Rime che raggiungono sembianza musicata quindi. Non è prioritaria la comprensione immediata delle parole, del senso, è la risonanza che entra nell’animo, il cervello può aspettare fuori dalla porta, a volte ore, a volte anni, a volte per sempre. D’altronde è già successo a tutti quando ascoltammo in gioventù brani cantati in una lingua allora incomprensibile dai nostri cantanti o gruppi rock anglofoni preferiti. Quanti conoscevano l’inglese quando ascoltarono per la prima volta Bob Dylan, Rolling Stones o Pink Floyd? Eppure, tutto era chiaro e molti non hanno mai smesso di amare il suono di quelle canzoni nel corso di tutta la loro esistenza. Sono graffiti di neve che non si sono sciolti dal cuore neppure dopo decenni, eppure quando vi entrarono erano circondati da tutte le ignoranze personali, senza vocabolari sottobraccio né altre istruzioni particolari. Non esisteva il web allora e, alla faccia di chi crede ciecamente solo in internet, questo ne ha garantito l’immortalità. In terra armoricana per mezzo di strumenti, ritmi, assonanze popolari, allegoriche e coloristiche liricità, elementi psicologici romantici si sono prodotte geniali invenzioni musicali. Studiosi, archeologi, genetisti, linguisti sono oramai d’accordo nell’affermare che la patria di provenienza di quelli che oggi chiamiamo Celti, non fosse il centro Europa (l’attuale Ucraina) del VIII secolo a. C. ma che si trattasse piuttosto di pescatori del Mesolitico (9-10.000 a. C.) che dimorarono sulle coste dove sono rimasti ancora i grandi megaliti atlantici ovvero Galizia e Portogallo. A una latitudine più alta gli enormi
ghiacciai avrebbero reso assolutamente impossibile a quell’epoca, le migrazioni verso l’Irlanda che avverranno infatti successivamente. Esiste una compatta area atlantica che va oltre i confini abituali delle lingue romanze, celtiche o germaniche. A osservarlo da vicino è lampante come il paesaggio culturale galiziano sia molto simile a quello irlandese e non solamente negli elementi linguistici ma anche nella tradizione musicale, negli usi e costumi (Costruzione di case, barche, nomi, terminologie relative al pesce). In Bretagna si respira un silenzio che non è uguale ad altri silenzi come il fragore del mare non risulta uguale a quello di altri mari. Le sue onde appaiono sonastiche, il loro insieme è spesso omofonico, altre volte risulta imitativo, la polifonia delle onde, anche quando è elementare, reca uno sfondo drammatico e commovente esattamente come il gwerz. È compito poi delle innumerevoli ballate marinare decretare come l’oceano possieda caratteri antitetici e farlo con toni che possono andare dal sofisticato allo sboccato, a seconda delle circostanze. Un immenso oceano che contiene il popolaresco e l'aristocratico ma che non tiene affatto conto delle classi sociali, che riesce a classificare come comiche anche genti tristi oppure a tratteggiare ogni cosa in modo fantasioso, immaginoso, frustando chiunque lo meriti. In Bretagna ho capito come le musiche più emozionanti siano sempre quelle di popolazioni che hanno sofferto: lo yiddish, l’irlandese, la balcanica in genere, quelle insomma che non hanno mai interrotto il loro cordone ombelicare con l’asperità della Natura. Perfino le quotidiane piogge bretoni, nella loro lucentezza d'ardesia, strisciano frangiate da melodie precise. A Plogoff, a Pointe du Raz, il sedentario goéland che quando è adulto (dai quattro anni in poi) sviluppa una macchia rossa sotto il becco, intona la sua musica delle stelle. Un canto capace di riportare alla vita uomini rapiti da altri ascolti come quello delle sirene che si incontrano da
qualche parte tra Belle-Ile e l’Ile de Groix. È un canto diviso in quattro parti come quatto sono gli elementi, quattro le direzioni, quattro i venti, ben diverso dalla melodia d’attesa di Dahut figlia del Gradlon sotto il raggio rosa in cima alla torre di Ys. Qui tutto è estremo. Nel mondo celtico esistevano solo due stagioni, in Bretagna chiamate "ar goañv", per l’inverno, e “an hañv”, per l’estate ma per la primavera fin dal Medioevo era nota l’espressione “nevez-amzer”. Nella mitologia celtica il fuoco è nero, colore di morte e temporale, a partire dall’arrivo del blu rinasce la speranza, torna il sole. Allusione è forse al “pianeta blu”?! (la Terra viene chiamata “pianeta blu” poiché più del 70% della sua superficie è ricoperto d’acqua). Anche il visionario Jacques Brel sostenne il matrimonio tra rosso e nero nel cielo di “Ne Me Quitte Pas”, la più emozionante canzone d’amore che sia mai stata scritta da un uomo. In Bretagna ci pensano i racconti dei gwerzioù ad ingrandire gli avvenimenti, è il sole nero che fa diventare il naufragio dell’Amoco Cadiz nel 1978, la “marea nera”, vera l’apocalisse che bilancerà la portata della disperazione di bestie e genti, lasciando traccia indelebile in ogni memoria futura. In questa terra si ha costantemente l'illusione che la natura non sia scomparsa a favore di città e spazi urbani, ad ogni angolo si possono incontrare improvvisamente valli, boschi o laghi come quelli decantati dai poeti del Romanticismo. Industrializzazione e massificazione non sono lontane geograficamente ma quella armoricana rimane terra di malinconia (dal greco antico mèlās), di umore “nero” che fa dell’uomo un estraneo al mondo. Il paesaggio bretone è costantemente diviso tra “armor” e “argoat”, coste e foreste, terra e mare, appena abbandona uno, ritrova l’altro, almeno fino al confine costiero da Riec che li associa e dove si trovano infine a fianco i porti oceanici e il mondo contadino. Così la sua musica, capace di trascendere stati emotivi, elevare frequenze vibratorie, perfino mutare comportamento agli animali e far diventare estremamente familiari gli uccelli oceanici. 

Flavio Poltronieri

Posta un commento

Nuova Vecchia