Di fronte alle violenze e ai massacri di cui è sempre più segnato il Mediterraneo viene da domandarsi in che misura l’indifferenza e la complicità che mostrano Paesi come l’Italia abbia anche a che fare anche con una diffusa mancanza di sensibilità in ambito artistico, di inibizione al dialogo, pur senza dimenticare le eccezioni del caso, da Battiato ai Radiodervish. Quanti sono i brani del repertorio italiano che sono stati in grado di raccogliere il grido di dolore dei campi profughi? Forse uno ogni vent’anni: “Luglio, Agosto, Settembre nero”, “Sidun”. È un’arte di chi è particolarmente legato al mare? La nuova composizione di Paolo Angeli, “Nakba”, sembra confermare questa impressione. Posta proprio a metà del suo nuovo album, scrive la storia traducendo in gallurese i versi del poeta palestinese Refaat Alareer. Ci sono epoche in cui i poeti si possono permettere di sognare. Ed altre in cui sono chiamati a leggere il futuro prossimo. Refaat Alareer ha saputo guardare l’abisso in cui Israele e i suoi alleati stavano sprofondando la Palestina. L’ha letto grazie a un prisma in cui ha avuto la capacità di intrecciare lucidità e affetti. Quella che cerca di infondere in chi ascolta le sue poesie dopo il suo assassinio. “If I must die” è la più conosciuta, diffusa inizialmente in arabo ed in inglese poi tradotta in tante lingue. Perché questa popolarità? Per l’arte di Refaat Alareer di saper infondere speranza a chi si è trovato a dover fare i conti con la brutalità con cui lui
e decine di migliaia di civili inermi sono stati uccisi: fate volare un aquilone, fate che chi lo veda senta l’amore che ritorna, la capacità di futuro che sanno distillare le storie. A partire da quest’eredità, ad un tempo estremamente lieve e pesante, Paolo Angeli ha generato un brano magistrale, sintesi di Area e di De André, in un registro non riferibile ad un genere, non riconducibile alla forma canzone, fondendo un’elettrica e lirica narrazione a passi, crepitii di fiamme, stilettate dal sapore metallico. In questa cornice, da angolazioni e distanze diverse si fa avanti la voce, filtrata, al naturale, in lotta con un contesto in cui tutto stride, pur senza riuscire a soffocare la ricerca della melodia, della capacità di rispondere alle voci che chiamano, nonostante il metallo rovente.
L’intero album veicola una sapiente creatività artistica e strumentale: i sei minuti e mezzo di “Periplo” aprono la serie dei brani esplorando senza fretta l’ampiezza dello spettro timbrico a disposizione, proponendo la prima parte di una suite divisa in tre parti dedicata al viaggio, alla circumnavigazione, all’incontro tra acqua dolce e salata. Di fatto, per chi dispone del vinile, i due lati dell’album presentano due diverse suite. Completano la prima “Sciumara” che comincia a farci ascoltare non solo le molteplici corde, ma anche la “voce” di Paolo Angeli. “Maví”, la terza parte di questa prima suite è anche il brano più articolato e complesso, sintesi dei diversi registri artistici del chitarrista.
Il “lato B” ci porta verso Est, prima con i colori e il sapore acustico, caldo di zafferano (“Azafrán”), poi con “Nakba” che sfocia nelle affascinanti “Conca Entosa” e “Ramadura”, quando il periplo ritrova i sapori di casa, delle melodie sarde ma senza mai perdere la capacità di improvvisare e decostruire, estetica ancor più evidente nel conclusivo omaggio al gigante “Sun Ra”.
Uno splendido tour de force questo quattordicesimo album da da solista, registrato a Sitges (Spagna) nel Silo Studio di Dave Bianchi e masterizzato a Cagliari da Marti Jane Robertson, eseguito in solo, senza sovraincisioni e senza ausilio dei loop: un dialogo da maestro tra Paolo Angeli e la nuova chitarra realizzata nella liuteria Micheluttis e elaborata da Oran Guitars.
Alessio Surian
Foto di Emanuele Porceddu (2)