Mario Incudine – Il senso della misura (Mimì Factory/Sony Music, 2024)

A dodici anni di distanza dalla pubblicazione di “Italia talìa”, Mario Incudine torna con “Il senso della misura”, album che cattura un’istantanea della sua vita, della sua visione del mondo oggi, maturata con il tempo e una rinnovata consapevolezza. La ricerca della stabilità, benché spesso elusa, si intensifica e si fortifica con il passare del tempo. Tra l'entusiasmo della giovinezza e la saggezza dell'età adulta, emerge una fase intermedia caratterizzata dalla consapevolezza, conosciuta come "l'età della misura". Le radici sono sempre ben salde nella tradizione siciliana, anche quando fa capolino l’uso dell’italiano, ma è nel suono dei dodici brani che si coglie una sorprendente varietà di suoni che spaziano attraverso le diverse sponde del Mediterraneo, con l’uso di strumenti come bouzouki, percussioni, fisarmonica, e zampogna “a paru”, combinate a batteria, basso elettrico, ghironde, mandolini e chitarre portoghesi, il tutto impreziosito da un’orchestra d’archi e dalle partecipazioni speciali di Faisal Thaer, Joana Guinè, Luis Peixoto, Placido Salamone, Federico Quaranta, Massimo Varini, Biagio Antonacci e la figlia Iole Incudine. Abbiamo incontrato Mario Incudine per farci raccontare questo nuovo progetto, soffermandoci sul significato attuale della "misura" e su come il suo approccio alla scrittura delle canzoni sia cambiato ed evoluto nel corso degli anni.

Mario, cominciamo dall’inizio. Com'è nato “Il senso della misura”?
“Il senso della misura” è nato lentamente, dopo un lungo silenzio discografico da Italia talìa. In questi anni ho lavorato molto per il teatro, per il cinema, ho scritto canzoni per altri. Ma per me, scrivevo solo quando sentivo davvero l'urgenza. Senza scadenze, senza pressioni. Scrivevo, mettevo da parte, poi riprendevo, cambiavo, risistemavo. Alla fine, è venuto fuori il disco che volevo: un disco cantato in italiano ma che suona in siciliano. Volevo essere, come disse Calvino di Verga, un "siciliano d'Italia". Dire qualcosa comprensibile a tutti, ma senza tradire la mia matrice. Negli arrangiamenti, nella costruzione delle canzoni, c'è tutto il mio mondo. Non mi sono tradito, anzi, mi sono superato».

Già dal titolo e dalla copertina, il disco sembra porsi come una dichiarazione d'intenti.
La copertina mostra una bilancia antica. Da un lato una piuma, dall'altro il piombo. Ma la piuma pesa di più. Perché l'anima, i sentimenti, hanno un peso specifico enorme. Dopo i quarant'anni, quando cominci a ridisegnare le tue priorità, capisci che è ora di dare peso ai rapporti umani, alle parole, agli incontri. A ciò che nella giovinezza davi per scontato o liquidavi in fretta. Questo disco nasce da una nuova collocazione delle cose. Dai miei pensieri sulla vita, sulla guerra, sull'erranza e sulla restanza».

Il disco verte su tre grandi temi: l'amore, la guerra e la terra. Come si intrecciano?
Sono tre tronconi che si incrociano continuamente. Penso a "Cesarino", storia vera di un bambino morto a Recco subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, annegato in un cratere riempito d'acqua. Era sopravvissuto alla guerra, ma è morto per una delle sue conseguenze. O a "Giochi di bambina", con tre
bambine che giocano tra le macerie: può essere la guerra mondiale, l'Ucraina, Gaza... Non importa dove. Sono immagini dell'innocenza che sopravvive alla distruzione.

Poi c'è la terra. E qui affronti il tema della partenza e della restanza.
Sì. In "Amara terra mia", che ho tradotto in siciliano su suggerimento di Federico Quaranta, racconto il dolore di chi parte. Modugno la prese dalla tradizione abruzzese, ma il Sud è uno solo. Chi parte, non lo fa mai a cuor leggero. Penso a chi scappa da Gaza, dalla guerra, dalla fame. Nessuno lo fa per sport. Come diceva Fossati: “Com'è difficile trascinare le nostre suole da una terra che ci odia a un'altra che non ci vuole”. Ma c'è anche chi resta. "Tienimi terra", scritta da Biagio Antonacci, è il manifesto della restanza. Ho letto Restanza di Vito Teti, che tutti dovrebbero leggere: parla dello spopolamento, del recupero delle tradizioni, dell'amore per l'identità. Noi siciliani siamo sciarriati con la contentezza, in conflitto con la felicità. Ma la nostra terra non è solo macerie, è bellezza, è una matria che partorisce cultura e custodisce la vita.

C'è anche una riflessione politica, civile.
Assolutamente. Il diritto di ogni uomo dovrebbe essere quello di morire dove è nato. Di scegliere se partire o restare. E se tutti se ne vanno, chi resta? "Cun nesci arrinesci" si diceva. Ma io dico: "Cun resta arrinesci". Se la terra ti tiene, è festa nazionale. E la tornanza è importante quanto la restanza: partire per poi tornare, e mettere a frutto ciò che si è imparato. Goethe chiamava la Sicilia un "deserto fecondo". Una terra apparentemente sterile, ma piena di vita.

Nel disco c'è anche l'amore. In tutte le sue forme.
C'è l'amore per la donna, per i figli, per la vita. "Irene" è dedicata a mia figlia, che ora ha quasi dieci anni. L'ho scritta molto tempo dopo la sua nascita, con una lunga gestazione. Già nel primo disco c'era "Li Culura", per la mia prima figlia. Qui c'è il nome vero. E poi l'amore cantato in forma alta, stilnovista. In "In un metro di terra bagnata" ho scritto: "Ho consacrato i miei occhi al tuo sguardo, la mia lingua al tuo verbo". Volevo tornare a una lingua poetica, a un modo di cantare la donna come nel Dolce Stil Novo o nella Scuola Poetica Siciliana. Dare peso ai sentimenti, anche alle parole.»

Un ritorno anche alla canzone come forma artigianale, teatrale.
Sì, perché oggi troppe canzoni sembrano collage di parole, spesso volgari, senza senso drammaturgico. Io volevo canzoni che raccontassero un fatto, che fossero atti unici. Canzoni che reggano solo con voce e chitarra, che abbiano melodia e armonia, una storia compiuta in tre minuti e cinquanta.

Negli ultimi anni hai pubblicato anche altri dischi, come “D'acqua e di rosi” o quello con Ambrogio Sparagna. Come si colloca questo album rispetto ai precedenti?
Sono tutti in continuità. D'acqua e di rosi era una raccolta, “Italia talìa” più legato al dialetto. Qui c'è più italiano, ma sempre col mio mondo musicale: la zampogna accanto alla batteria, il bouzouki col basso elettrico. Ho lavorato con musicisti come Luis Peixoto, Faisal Taher, Massimo Varini. E poi la collaborazione con Antonacci si è rinnovata in "Tienimi terra". C'è molto Mediterraneo in questo disco.

Un folk che si apre al pop, senza perdere l'anima. È una sfida?
Non è un rischio, è evoluzione. Se il folk non evolve, muore. Diventa materia da museo. Io vengo dal folk autentico, ho cantato nei campi, nelle barberie, fatto serenate. Ma oggi sento il bisogno di raccontare altro. Il folk ha bisogno di una rigenerazione estetica.

Da siciliano, sorprende la canzone dedicata a Roma. Come è nata?
Roma rappresenta tutte le grandi città: Parigi, Lisbona, Venezia. Città dove ti puoi perdere e ritrovare. Volevo raccontare l’incontro di due innamorati nella città eterna, l’amore che diventa incendio come Nerone, che accende ogni stanza, ogni hotel. Una signora mi ha scritto per dirmi che quella canzone le ha ricordato la prima notte di nozze. Ecco, questa è la forza della musica: diventare memoria condivisa.

E poi c'è “L'alba, il giorno e la notte”, un brano in cui canti con tua figlia Iole.
Una favola ad alta voce, un passaggio di testimone. Nella vita, a ogni notte corrisponderà sempre un'alba, poi un giorno e ancora una notte. Lo dice anche un proverbio siciliano: "U bon tempu e u malu tempu nun dàuranu tuttu u tempu". Il vento che sbatte le porte è lo stesso che gonfia le vele. La vita è questo: sorrisi e lacrime, cadute e voli. Ma ci sarò io, come padre, a proteggerti.»

Porti in scena anche “Parlami d'amore”, uno spettacolo che ha avuto molto successo.
È nato da un'idea di Costanza Di Quattro e Pino Strabioli, che ne è anche il regista. Un teatro-canzone che racconta l'Italia del Ventennio attraverso le musiche dell'epoca. C'era la radio, che diceva che tutto andava bene, e c'era la musica, che serviva a distrarre. Ma quelle canzoni avevano un valore altissimo: melodia,
armonia, parole. Canzoni come "Balocchi e profumi" o "Voglio vivere così" sono atti teatrali, piccoli capolavori. Oggi la trap durerà un anno. Quelle canzoni, invece, le ricorderemo per sempre.

Come avete lavorato sugli arrangiamenti?
Con Antonio Vasta abbiamo fatto un lavoro di sottrazione. In scena ci siamo solo io e lui, con pianoforte e fisarmonica. Abbiamo spogliato canzoni come "Vitti ‘na crozza" della retorica folkloristica, riportandole alla loro essenza tragica. Era una canzone di miniera, di morte, non un trallallero. Abbiamo creato il nostro suono, recuperando le anime classiche e popolari.

E adesso? Come sta andando il tour?
Il senso della misura è partito benissimo, con una grande presentazione a Taormina e tante date estive. Poi ci siamo fermati per Parlami d'amore, che ci ha portati in teatri importanti come il Carlo Felice di Genova, il Sala Umberto di Roma, il Mancinelli di Orvieto. Ma in primavera ripartiremo con il tour del disco, attraversando tutta l'Italia. Perché Il senso della misura ha ancora tanto da raccontare.


Mario Incudine – Il senso della misura (Mimì Factory/Sony Music, 2024)
"Il senso della misura" segna il ritorno di Mario Incudine al cantautorato, dopo alcuni anni spesi tra progetti speciali, collaborazioni e una intensa attività live, tra musica e teatro. Rispetto ai precedenti, questo nuovo disco è quello che meglio ne cattura la poliedrica personalità artistica, coniugando il tratto biografico con la tensione civile e meditazione esistenziale. Realizzato con lo storico collaboratore, Antonio Vasta (pianoforte e fisarmonica), il disco presenta un sound caratterizzato da una vasta gamma di sfumature che spaziano dalla tradizione siciliana alle sonorità delle coste del Mediterraneo. In questo senso  fondamentale è stato l’apporto dei musicisti che hanno preso parte alle registrazioni: Manfredi Tumminello (chitarre acustica, classica, elettrica e bouzouki), Pino Ricosta (basso elettrico e contrabbasso), Francesco Bongiorno (batteria e percussioni), e dall’Orchestra della Magna Grecia diretta da Valter Sivilotti. Ad arricchire il tutto, l’uso di strumenti tradizionali come percussioni, fisarmonica, zampogna "a paru", ghironde, mandolini e chitarre portoghesi, combinati con batteria e basso elettrico, e la presenza di alcuni ospiti speciali come Faisal Thaer, Joana Guinè, Luis Peixoto, Placido Salamone, Federico Quaranta, Massimo Varini, Biagio Antonacci e la figlia Iole Incudine. Ad aprire il disco è la brillante “Se questo amore” con la partecipazione di Luis Peixoto e nella quale si alternano versi in italiano e portoghese, mentre gli archi imprimono al brano un climax di grande intensità. Si prosegue con la malinconica ed evocativa “Roma”, scritta con Tony Canto, e dedicata alla città eterna, mentre “I giorni dell’abbandono” è struggente nella sua tessitura poetica che mette al centro i temi del distacco, della perdita e della solitudine. Se la trascinante “Tienimi terra”, nata dalla collaborazione con Biagio Antonacci, è il canto per una terra che è anche luogo di memoria e di dolore, “Cesarino” racconta la storia di un bambino morto troppo presto durante la Seconda Guerra Mondiale. L’evocativa “Chagall” con la partecipazione di Massimo Varini è costruita su una serie di immagini che rimandano alle opere del pittore russo, mentre “L’alba il giorno e la notte” è una canzone d’amore tutta giocata in crescendo. I vertici del disco arrivano con “Irene”, giocata sul crescendo dell’elegante tessitura melodica del piano di Vasta e degli archi e la struggente “Parlami d’amuri” con la partecipazione della voce di Faisal Thaer. In “Giochi di bambine” Incudine canta il tema dei bambini vittime delle guerre con gli archi che avvolgono la voce esaltando la profondità del testo, mentre nella seguente “In un metro di terra bagnata” al centro ci sono i temi della memoria e del ritorno, con la voce sostenuta dall’orchestra e dalle corde. La rilettura in siciliano di “Amara Terra Mia” di Domenico Modugno con la voce narrante di Federico Quaranta chiude un disco pregevole che certamente segnerà il passo nella discografia del cantautore siciliano, non solo sotto il profilo della ricerca musicale, ma anche della scrittura e degli arrangiamenti. È un album che non cerca il facile successo commerciale, ma coglie nel profondo toccando il cuore.


Salvatore Esposito

Foto di Toto Clemenza

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