I percorsi artistici di Ambrogio Sparagna e Mario Incudine si sono incrociati spesso negli ultimi quindici anni con quest’ultimo che ha collaborato in diversi progetti dell’Orchestra Popolare Italiana dell’Auditorium Parco della Musica, diretta dall’organettista laziale. L’approdo naturale di questo sodalizio artistico è “La Bella Poesia”, album che vede i due musicisti alle prese con un viaggio attraverso la tradizione poetica siciliana, in cui hanno dato voce e colori musicale alle liriche tratte dalle raccolte etnografiche di Lionardo Vigo (1799 –1879), Giuseppe Pitrè (1841-1916), Salvatore Salomone Marino (1847- 1916), e delle composizioni più recenti di Ignazio Buttitta (1899 –1997), e di Andrea Camilleri la cui voce fa capolino nel disco in due brani. A riguardo Ambrogio Sparagna sottolinea: “Partendo dalla voce straordinaria di Mario Incudine e conservandone il testo e la forma metrica dialettale originaria, ho composto un’elaborazione musicale dove trova corpo un arrangiamento essenziale, vicino a quella etnosfera sonora alla quale fa riferimento questo repertorio. Mario Incudine ha ridato vita a questa varietà di immagini poetiche restituendo all’antica poesia popolare la sua bellezza. Con voce intensa e drammatica dà corpo e rigenera questi canti antichi trascinandoci in un viaggio a ritroso tra immagini e suoni di una Sicilia a tratti dimenticata, terra di rara bellezza e di passioni struggenti”. A raccontarci questo nuovo album è Mario Incudine che abbiamo incontrato nel corso dell’edizione 2021 dei Seminari di Mare e Miniere.
E’ nato da un’idea di Ambrogio Sparagna che, da diversi anni, voleva fare una raccolta organica di tutta una serie di poesie della tradizione popolare siciliana, raccolte da Lionardo Vigo, Giuseppe Pitrè, Salvatore Salomone Marino e Ignazio Buttitta, pescando, dunque, in quel corpus amplissimo di poesia popolare. Da sempre, diciamo così, siamo innamorati della poesia cantata, quindi, la sfida, è stata quella di potere musicare quelle liriche che non nascevano per essere musicate e, dunque, cantate, ma piuttosto lette o declamate. Da questa idea è nato il progetto “La Bella Poesia”, una sorta di viaggio attraverso la poesia siciliana, da quella popolare dei contadini a quella borghese, quella aristocratica dei salotti del barocco siciliano, passando per quella sociale di Buttitta e per giungere, infine, a quella di Camilleri e la mia.
“La Bella Poesia” è il primo disco in carriera in cui vesti i panni dell’interprete…
Ambrogio è stato, diciamo, decisivo nel farmi cantare in un certo modo, come io non avevo mai cantato. Scrivendomi io le canzoni cerco, chiaramente, di andare su un'altra direzione, invece lui mi ha fatto cantare da interprete da grande chansonnier.
E’ un'esperienza nuova perché io sapevo di avere certe caratteristiche, ma non le avevo messe a frutto. Questa è stata, dunque, un’occasione di scoperta anche per me. Cercare di raccontare con quella vocalità, in quel modo queste storie. E’ stata un'esperienza che mi ha fatto capire che posso essere anche dentro al quel solco di una tradizione che in Italia ha grandi esponenti dalla nostra Rosa Balisteri a Maria Carta, da Otello Profazio a Ciccio Busacca, a Caterina Bueno, cioè quel tipo di canto popolare che ti fa poi essere parte di una certa tradizione.
Come avete selezionato le poesie da mette in musica?
E’ stato Ambrogio a scegliere i brani e a curare la produzione artistica e musicale del disco. Le musiche le abbiamo scritte o quattro mani, o ci siamo divisi i vari brani. Ovviamente ho condiviso la scelta, ne abbiamo parlato a lungo anche riguardo al senso di fare un’operazione del genere perché poteva suonare anche come museale. La poesia come la tradizione è materia fluida e prende la forma dell’acqua ed Ambrogio in questo è stato molto bravo anche perché è un habitué con progetti di questo tipo, si veda il Dante cantato per esempio. Questa operazione sinergica, però, non l'aveva fatta nessuno. Di solito quando si fa un’operazione di recupero della tradizione siciliana si pensa Rosa Balistreri e a recuperare tutta una serie di canzoni di canti tratti dal Favara, quindi già musicati.
Questo è un lavoro diverso perché autoriale e ci tengo a dirlo perché sia io che Ambrogio abbiamo scritto le musiche, tenendo i testi come pietre miliari. Per altro abbiamo trovato una marea varianti di alcune poesie e questo vuol dire che sono materia viva che passa di bocca in bocca e si muove e cambia. Io ci aggiungo un verso, cambio una parola. Da paese a paese, a distanza di pochi chilometri cambia anche la pronuncia, cambia il dialetto per questo, poi, abbiamo chiuso con Camilleri che è il punto di arrivo di un nuovo siciliano. Lui ha inventato una lingua che non esiste perché il siciliano puro non c’è. A Catania si parla in un modo, a Palermo in un altro, ad Agrigento un altro ancora. Quello che può sembrare è che Camilleri utilizzi il siciliano comune, ma non è così perché ha inventato il licatese che non esiste. Ha inventato una lingua che ha sdoganato il siciliano, ha utilizzato un rapporto metalinguistico utilizzando la lingua di arrivo per far conoscere la lingua di partenza, inventando termini unici che non esistono come “cabbasisi” che è pura invenzione. Ha preso molto dalla sua zona che è quella di Agrigento, ma l’ha innovata, ha italianizzato la lingua, facendo una sorta di sintesi di tutti i dialetti siciliani. A pensarci è un’operazione pazzesca.
Nel disco suonano i componenti dell’Orchestra Popolare Italiana con la quale tu già in passato hai avuto modo di collaborare…
Collaboro da quasi quindici anni con l’Orchestra Popolare e conosco tutti i musicisti perfettamente come loro conoscono me. Nel disco, oltre ad Ambrogio che suona l’organetto e canta ed io che mi divido tra canto, chitarra e mandola, ci sono Antonio Vasta al pianoforte, zampogna a paro, Raffaello Simeoni ai fiati, Marco Iamele alla ciaramella e alla zampogna, Marco Tomassi alla zampogna gigante, Alessia Salvucci ai tamburelli e Salvatore Flauto alle chitarre, oltre ad aver curato arrangiamento e programmazione degli archi.
Come si è indirizzato il lavoro in fase di arrangiamento dei brani?
In questo disco Ambrogio ha fatto un lavoro molto bello, lavorando per sottrazione. Ci sono brani per soli organetto, voce e tamburello oppure zampogna, chitarra e voce. In buona sostanza, ha cercato di riportare tutto all’essenza della vocalità e quindi all’essenza della parola, del verbo. Quello che doveva arrivare dura era la parola, la poesia. Tutto il resto era a supporto della parola e il canto doveva arrivare proprio “a voce spiegata”, inteso non tecnicamente ma letteralmente, doveva far arrivare la parola allo spettatore.
In questo senso come hai approcciato le tue interpretazioni?
Nell’approcciare l’interpretazione ho puntato sulla sillabazione, sulla potenza della consonante piuttosto che della vocale e sulla bellezza del ritmo, dell’ictus percussivo e della melopea greca che solo la lingua siciliana.
La lingua siciliana ha in sé già quantità e qualità nella sillaba, quindi bastava che io dicessi delle cose con un certo ritmo a mo' di cunto per avere l'ictus percussivo. Bastava, poi, mettere quello stesso ritmo dentro la melodia della parola stessa per avere la melopea greca. Noi abbiamo dentro i greci, i latini e gli arabi, abbiamo tutto quello che significa essere siciliano, perché essere siciliano significa ricostruire tutto questo patrimonio. Devo dire che in “La Bella Poesia” c'è questa caratteristica quella di utilizzare la voce come mappa geografica di questa nuova Sicilia che vogliamo restituire.
“La Bella Poesia” è anche un omaggio alla Sicilia come culla della poetica italiana…
Se tu pensi che la poesia è nata in Sicilia… “Rosa fresca aulentissima”, tutta la scuola poetica siciliana alla corte di Federico II che era un poeta e creò il primo circolo poetico al mondo, prima ancora del Dolce Stil Novo. C’è un distico che dici “Cu voli poesia venga in Sicilia, ca porta bannera di vittoria”. Noi in Sicilia abbiamo la poesia, ma ce l’abbiamo naturalmente. I cantastorie sono poeti, come lo sono i cuntastorie, i cantori e i pupari. Omero è passato dalla Sicilia e ha raccontato la sua “Odissea”, ambientandola in certi punti con il ritmo del cunto. La Sicilia, hai detto bene tu, è la culla della poesia, ma perché ha questa caratteristica la parola è già poetica di per sé, è già suono. Il verbo è fonos è fonetica e basta puntare sulla sonorità della parola per avere già i per tirare fuori l’oro dalla roccia. Non bisogna fare grandi cose per questo album e ha suo senso e un suo perché anche a livello musicale, perché togliendo tutto l’apparato musicale che tante volte confonde, restituisce invece la potenza della sillaba, quindi quando tu dici la
sillaba in un certo modo già automaticamente dai un impulso musicale a tutto quanto. Camilleri è, poi, l’anello finale che chiude il cerchio di tutto questo.
Prima ci parlavi de “La Bella Poesia” come un viaggio attraverso la poesia siciliana. Come avete costruito questo itinerario lirico e sonoro?
E’ un excursus poetico che abbraccia tutto, perché in Sicilia abbiamo tre grandi ceppi culturali quello popolare dei contadini, quello degli aristocratici e quello della chiesa. Sono stati questi tre filoni a determinare la cultura e la poesia in Sicilia. Per cui, senti la poesia del contadino, quella dell'aristocratico, ed anche quella religiosa che trattano lo stesso argomento: l'amore, il lavoro e la terra, ma in maniera completamente differente. Questi tre grandi filoni culturali hanno determinato anche una visione culturale delle cose, quindi è bello vedere come lo stesso argomento può essere raccontato dal popolo, dall’aristocrazia e dalla chiesa. Nel disco, per esempio, ci sono pezzi bellissimi come “Chianciunu st’occhi mei” che è un brano popolare, un canto di spartenza, di allontanamento, di immigrazione e di partenza. “Lu risignolu”, “Li primi inventuri” sono brani di impostazione lirica colta e quindi provenienti dagli ambienti aristocratici, ed altri che arrivano dalla tradizione religiosa come “Vergini Maria” e “Cuntu di Erode”, in cui sono narrati fatti biblici, attraverso la narrazione dell’ottava rima. Poi c’è la poesia sociale con “Portella della Ginestra” di Ignazio Buttitta.
E’ interessante la storia che riguarda Andrea Camilleri, la cui voce fa capolino nel brano che apre il disco…
Il master dell’album era chiuso e avevamo già completato il brano di cui Andrea mi aveva dato il testo, l’avevamo musicato e io lo avevo cantato. In un backup di vecchi telefoni, quando ho fatto il passaggio dei files ho trovato il video di Camilleri che mi raccontava la storia di quelle liriche e mi recitava il sonetto, perché sono due quartine e due terzine. Quando ho visto il video e ascoltato la voce di Andrea, sono saltato dalla sedia e immediatamente ho chiamato Sparagna. Gli ho detto di aver trovato questo video e che sarebbe stato bello inserire la voce di Camilleri nel disco e lui ovviamente ha detto di si. Ho chiesto l’autorizzazione alla famiglia di Andrea con cui ho un ottimo rapporto ed è nato questo duetto post mortem. Questa poesia chiudeva il bellissimo “La rivoluzione della Luna”, un romanzo storico. Al di là del personaggio di Montalbano sono i romanzi storici come “Un filo di fumo”, “Il re di Girgenti” e “La presa di Macallè” che lo hanno reso grande in tutto il mondo.
Veniamo alla storia di “Donna Lionora”…
Quella di “Donna Lionora” è una storia meravigliosa che risale alla fine del Seicento. Eleonora Di Mora, dopo la morte del marito, assunse le funzioni di viceré di Sicilia. In ventotto giorni, il tempo di un ciclo lunare, rivoluzionò il regno eliminò la tassa sul macinato, tolse i poveri dalla strada e diede le proprie ricchezze come dote alle ragazze che non avevano dote per sposarsi, fece un ricovero per le vecchie prostitute che non potevano più esercitare.
Insomma, fece delle cose rivoluzionarie per quel tempo e, come tutte le cose, fu poi cacciata. Camilleri andava a prendere storie nascoste, ricercando negli archivi e dandogli nei suoi romanzi dignità storica in senso stretto. Camilleri ha compiuto un’opera importante di svecchiamento di una certa retorica siciliota, questo pensare alla Sicilia in un certo modo oleografata…
Quella con Andrea Camilleri è una delle tue collaborazioni più importanti…
Ho collaborato tante volte con Camilleri e a lui io devo veramente il mio arrivo al teatro. Se io sono arrivata al teatro lo devo a lui e a Moni Ovadia. Lui mi ha scoperto guardando un servizio sul TG2 che Tommaso Ricci aveva realizzato per presentare il mio disco “Beddu Garibaldi” che avevo pubblicato in occasione dei centocinquant’anni dall’Unità d’Italia. Il servizio andò in onda a mezzanotte e mezza e Camilleri che era un nottambulo lo guardò. Il giorno dopo mi chiamò entusiasta e mi disse che dovevo andare a Roma. Mi disse che aveva visto il servizio in televisione e aveva trovato quello che gli serviva per lo spettacolo “Cannibardo e la Sicilia” che stava scrivendo per il Festival dei Due Mondi di Spoleto e nel quale recitava Massimo Ghini. Mi disse che mi avrebbe voluto in scena per eseguire quelle canzoni. Da quel momento diciamo la mia carriera teatrale ha avuto una svolta importante, tanto è vero che poi lui scrisse “Il casellante” ed io interpretai la parte del protagonista. Abbiamo fatto trecentoquarantacinque repliche in due anni in tutti i teatri d’Italia, siamo stati ovunque dal Sistina di
Quanto è stata ed è importante per te l’esperienza in ambito teatrale?
Ad un certo punto c’è stato questo spin-off ma, in realtà, nasco come attore e successivamente ho intrapreso la carriera musicale. Per tanti anni ho fatto solo il musicista, il cantante e il compositore. Ad un certo punto, arriva l’incontro con Camilleri e comincio ad entrare prepotentemente nel teatro. Moni Ovadia mi chiamò a fare la co-regia, le musiche e la riduzione in siciliano de “Le Supplici” a Siracusa. Come detto, ho fatto “Il Casellante” con il Carcano di Milano e poi “Barbablù” sempre con il Carcano di Milano e poi ancora “Mimì”, un omaggio a Domenico Modugno in siciliano con la regia di Moni Ovadia con cui siamo stati in tour in tutta Italia partendo dall’Elfo di Milano e dal 26 aprile al 1 maggio del 2021 saremo al Quirino a Roma. Insomma, il teatro mi è esploso dentro sia come attore che come regista. Ho fatto una riduzione in musica di “Liolà” di Pirandello al Teatro Biondo di Palermo con quaranta attori di cui venti del Teatro Stabile di Palermo. Ed è per questo motivo che da “Italia Talìa” mi sono fermato discograficamente per dieci anni e, quindi, ora è necessario tornare a fare un album.
So che sei a lavoro proprio su un nuovo album…
Questi dieci anni di lavoro con il teatro mi hanno dato molto spazio per riflettere e soprattutto molti spunti.
Il nuovo disco sul quale sto lavorando, sarà un lavoro di teatro-canzone con una sorta di ibrido con l’utilizzo dell’italiano e del dialetto. Lo spettacolo su Modugno in questo senso è molto indicativo perché è quello in cui mi sento perfettamente a fuoco e nel quale ho trovato la sintesi tra le mie due passioni: la musica e il teatro.
Musica e teatro come convivono in Mario Incudine?
Non sono un attore puro, non sono neppure un musicista puro, né un cantante, ma sono tutte queste cose insieme e queste anime diverse devono convivere. Qualcuno mi diceva che so fare troppe cose ma io ho avuto veramente un periodo di grande crisi, perché - per me - sapere fare non dico benissimo, ma discretamente tante cose, poteva essere un valore aggiunto. Invece, per come siamo abituati, non puoi ibridare. Una volta mi misero davvero in crisi chiedendomi se fossi un attore, un musicista o un cantautore. Quando non faccio l’attore, scrivo colonne sonore per il teatro o per il cinema. Sono stato ad un solo voto dal vincere il David di Donatello. Io mi sento tutte queste cose, perché tutte queste cose risentono l’una dell'altro. Se io non fossi un interprete, non saprei fare l’attore, così come se io non fossi un attore, non saprei essere un musicista. Quando canto recito, quando recito canto, quando scrivo ho in testa la scena del teatro da attore, quando scrivo per il cinema ho in testa quello che deve succedere perché ho una visione di regia, di insieme.
Quella è la prima cosa. Se io dovessi definirmi io mi definirei un cuntista e un musicante, perché i musicanti erano dei performer che mettevano insieme tutte queste cose e, nell'accezione del termine musicante, era una cosa bassa, invece il musicista era colto. Nel mio repertorio faccio “Lamento per la morte di Turiddu Carnevali” e “Lu trenu de lu suli” e sono i miei cavalli di battaglia. Sono contento di esse un musicante perché significa che la palestra più grande è la strada, la piazza. Bisogna saper cantare senza amplificazione, ed affrontare il pubblico, bloccandolo perché altrimenti se ne va, lo devi accattivare e tenere alta l’attenzione. Questo cerco di fare anche nel disco nuovo che potrebbe essere più aperto alla world music e alla canzone d’autore, ma sempre fortemente radicato alla tradizione. Anche l’ultimo brano che ho pubblicato “Selfie in lockdown” che è un brano di teatro-canzone ma rimanda al cunto, le sdrucciole mi portano alla prosodia teatrale del testo anche in italiano.
Salvatore Esposito
Ambrogio Sparagna & Mario Incudine – La Bella Poesia (Finisterre, 2021)
“Un populo diventa poviru e servu quannu ci arrubbano a lingua addutata di patri: è persu pi sempri”. In questi versi di “Lingua e dialetto”, Ignazio Buttitta ha colto tutta l’importanza identitaria del dialetto che, nella sua dimensione poetica, è probabilmente l’unica scrittura che non conosce barriere e differenze di ceto, posizione sociale o altro, in quanto al centro mette la vita vissuta e, nel contempo, racchiude la tensione poetica colta e popolare al tempo stesso. Alla poesia popolare siciliana è dedicato “La Bella Poesia”, album firmato da Ambrogio Sparagna e Mario Incudine i quali, con la complicità degli strumentisti dell’Orchestra Popolare Italiana dell’Auditorium Parco della Musica, hanno compiuto un viaggio attraverso il corpus poetico raccolto da Vigo, Salamone Marino, Pitrè, Buttitta, ed in fine Camilleri. Proprio la voce di Andrea Camilleri apre il disco introducendoci a “Donna Lionora”, trainata ritmicamente dal tamburo a cornice, costantemente stracciato dai graffi delle ciaramelle e del flauto, che poggiano su una base melodica di organetto ed archi. L’organetto, insieme ad una base ritmica di tamburello, chitarre ed un ossessivo marranzano, trascina “Arti ca supra l’arti”, la cui dinamica, anche in questo caso, è movimentata dagli ipnotici fiati del grande Raffaello Simeoni. A seguire troviamo i sapori marinareschi di “Lu pisci d’oro”, la cui trama è sorretta da un incastro di organetti, uno che si occupa dei bassi, l’altro che si diverte su guizzanti fraseggi. Splendido l’inserimento della sezione archi e del flauto che, unitamente ad un cantato che si alza di ottava, fanno decollare il pezzo verso vette altissime, smorzate da un recitato- manco a dirlo, magistrale, di Incudine. Quarta traccia è la commovente “Lu suli m’abbampa” (“E a la sira, quannu vi curcàti, la luna fa la guardia e vui durmìti. E a la matina, quannu vi livàti, li raj di lu suli m’pettu avìti”), in cui la voce di Incudine e l’organetto di Sparagna giocano a rincorrersi, trovando nei delicati fraseggi di ciaramelle e friscaletti gli ideali compagni di giochi. Si continua con “Tutti hanno bisogno”, pezzo in cui l’organetto duetta con l’elegantissimo pianoforte di Antonio Vasta, e che, proprio per la sua semplicità dinamica, sottolinea la grandezza interpretativa di Incudine, spettacolare nei vocalizzi finali. “Contro la luna” incrocia perfettamente il tamburello di Alessia Salvucci ad uno scatenato organetto, con i guizzi del friscalettu che vi si stagliano sopra, potenti ma dolci allo stesso tempo. Fra le gemme del lavoro c’è sicuramente “Li primi inventuri” (“Li primi di la musica invinturi io dico ca in Sicilia sianu stati, ca ‘cca li putiàri e i vanniaturi cu l’abbanniari fannu gran cantati! Sintiti bassi, soprani e tinuri fari trilli, mordenti e scivulati, cu diesi, bemolli e appoggiaturi: senza scola, musici nati”), brioso scambio fra organetto e ciaramella, col sostegno ritmico di un marranzano e di un tamburello ed un arioso tappeto di zampogna. Altro splendido episodio è “Lu Risignolu”, che vede il ritorno del pianoforte e dei suoi delicati ricami ad affiancare l’organetto, mentre una mandola si abbandona a tremolanti e fragili fraseggi. Spettacolare, soprattutto a livello interpretativo, il finale, con i soli piano e voce, che si abbracciano in un crescendo interpretativo, che fa da contraltare al decrescendo timbrico, sfiatato dall’uccellesca zampata del flauto che chiude il brano. “Vergini Maria” è giocata sulle trame create da un tappeto di organetto e zampogna, su cui si innesta una solenne sezione archi, contrappuntata dai fraseggi delle ciaramelle e sostenuta dal tamburello. Il “Cuntu di Erode” è una magistrale prova attoriale di Mario Incudine, che recita alla maniera dei cuntisti, con una scansione metrica serratissima ed incessante. Gli fa seguito “Li boni festi”, probabilmente il brano più interessante del lavoro, quantomeno a livello di arrangiamento: una vorticosa linea di contrabbasso tira le fila della ritmica, insieme all’immancabile tamburello, al marranzano e al levare di un organetto, mentre i fraseggi ed i contrappunti di un altro organetto e di una aspra ciaramella, che poggiano su una base melodica di zampogna, fanno da elemento di variazione. Un interessante rincorrersi fra organetto e friscalettu scandisce l’elegante “Chiancinu st’occhi mei”, pezzo dall’atmosfera agrodolce, sottolineata dai contrappunti amari della ciaramedda. “Portella della Ginestra”, dalle parole del Maestro Buttitta, si snoda lungo un tempestoso strumming di chitarra, che ben si adatta all’atmosfera della poesia, racconto straziato e civilmente ferito del massacro del Primo Maggio 1947. “Si sulu avissi paroli di poeta, assicutati pi’ tutta la vita, ti scrivissi paroli e canzuni, e fussi luna, e fussi suli” sono le commoventi parole che introducono “Si sulu avissi”, delicata e toccante dedica d’amore, sostenuta da un pianoforte solitario e, a tratti, malinconico. A chiudere il lavoro ci pensa “Tempo”, su testo di Camilleri (“È l’ora di aprire tutte le finestre, tutte le porte, abbattere i muri, se occorre, per poterci guardare negli occhi. Trovare una parola nuova”) che lo stesso Sparagna canta con voce antica e densa di trasporto, sostenendosi col fido organetto e con una sezione d’archi ad aprire nostalgicamente, su cui si poggiano, delicate, ciaramedde e zampogna. Il risultato finale della collaborazione fra Sparagna ed Incudine è un lavoro ricercato, elegante ma, non per questo, statico, un disco intriso di atmosfere d’altri tempi, che rimette al centro il legame – fortissimo - fra la musica e le parole. E se è vero che la musica è l’arte dell’incontro, l’ennesimo incontro fra l’arte di Sparagna e quella di Incudine - sottolineo, interprete strepitoso di un repertorio ostico - ci regala un album dalla classe sconfinata, da ascoltare e conservare con cura.
Giuseppe Provenzano
Foto di Cristina Canali