Undicesimo lavoro discografico per il cantautore bolognese Germano Bonaveri. “1968” contiene tredici tracce inedite, è prodotto da Valter Colle e gli arrangiamenti sono curati insieme a Lele Veronesi (batteria), Nicola Morali (pianoforte e tastiere), Luca De Riso (basso), Pietro Posani (chitarra acustica, elettrica e mandolino). “Novecento” (“Ah che bel tempo il tempo che ho vissuto, tutto in salita, tutto controvento, ma adesso che il futuro è cominciato, ho quasi nostalgia del Novecento”) apre il disco con una bella melodia accarezzata dagli archi e dal pianoforte. In “Estate” (“Volteggia un falco ispezionando la pianura, balza la lepre e sfida il corso del destino, secondo i piani di Natura, conoscerà presto il suo assassino”) si colgono dei sapori etnici e misteriosi. L’armonica a bocca di Ivo Zeccoli tratteggia “1968” (“Per sempre è un luogo in cui non puoi arrivare, naufragando sotto un cielo che nasconde il nord della Polare, per questo nascondiamo il vento e ci teniamo stretti per non scivolare”); molto delicata è “Il re degli interstizi” (“È un chiarore di fondo dietro l'oscurità, è il sovrano del mondo che regna il sottile universo tra sogno e realtà”). Arpeggi di chitarra acustica ricamano “La potenza della felce maschio” (“Bocche scarne, senza denti, i sorrisi osceni dei defunti, poi qualcuno adesso si avvicina, con movenze quasi da bambina, per la voglia di provare ancora l'emozione che l'uccise allora”). È un rock serrato, invece, “Il fuggiasco” (“La speranza è un lasciapassare, il destino è ostaggio di un potere che oggi ha il volto freddo di un questore, messo lì solo per obbedire... Deportato alla città prigione per tentato espatrio e disobbedienza, condannato alla rieducazione per riprogrammare il flusso di coscienza”). Di pregevole raffinatezza è “Canzone del buon consiglio” (“Apri i tuoi sensi all'esperienza, impara ad odiare senza rancore, impara ad uccidere e a liberare, non temere e non desiderare”); più cupa e incisiva “L’uomo che scava” (“Osserva i calli che ho sulle mani e l'aspra curva della mia schiena, guarda le rughe solcarmi il viso d'un candore di luna piena, sappi che il sole quaggiù è il miraggio di questo abisso che ho costruito e l’orizzonte è solo l’ipotesi di un desiderio mai realizzato”). Si toccano momenti di dolcezza con “La ragazza sul ponte” (“Ed il tuo nome lo pronuncerei, lottando tra i flutti di questo mare, come un sestante cui mi affiderei per incontrarti senza naufragare”) e altri più ironici macchiati di folk con “Pazzo” (“Sono poeta e sono pastore, netturbino o commendatore, sono il re oa regina, sono l'uovo e anche la gallina”). Densa, a tratti recitata è “Grandi magazzini” (“Migliaia di avventori si accalcano affamati, le viscere ruggiscono alla vista del banco surgelati, io schivo quella bolgia ed entro in pizzeria, minimalista e sterile, asettica, pulita, bella come una farmacia”). “Sono tornati” (“Eccoli, li abbiamo sentiti arrivare da un tempo oscuro che non fa prigionieri, sono tornati, come una ferita che non sa guarire, che stenta ancora a rimarginare e vomita sangue, dolore e paura”) è tremendamente attuale e tagliente. In chiusura, troviamo il tassello mancante, con la nostalgica “Tempo” (“Tempo, libri abbandonati, lettere d’amore, fiori mai appassiti, tempo, quanta nostalgia, che non va più via”).
Bonaveri come sempre centra l’obiettivo e anche questa volta ci regala grandi emozioni con la sua voce morbida e pastosa. Il disco suona vivo con arrangiamenti eleganti e una scrittura ricca, colta e mai banale. In un paese più giusto un cantautore come lui sarebbe osannato e magari anche studiato! Io posso solo continuare la mia battaglia per farlo ascoltare a più gente possibile, perché se è vero che “La bellezza salverà il mondo”, allora siamo veramente sulla giusta strada.
Marco Sonaglia
Tags:
Storie di Cantautori