Una nuova “Cà” del liscio

E se ricominciassimo dai luoghi? Se per provare ad attaccare una flebo ad un paziente moribondo quale si sta rivelando il liscio emiliano-romagnolo del terzo millennio, provassimo a non guardare subito alla musica, agli strumenti, alla circuitazione discografica, ma ripartissimo, d'emblée, dagli spazi concertistici, dai luoghi di ritrovo, dalle occasioni di socialità condivisa?  
I luoghi, i ritrovi, sono stati il vero collante del liscio e dei suoi riti, fin dai primordi.
“Ogni domenica – ricorda Secondo Casadei nel suo diario – andavo ad ascoltare le orchestre a Sant’Angelo dove abitavo, a Sala, Gatteo, Gambettola, Fiumicino, ecc. Qualche soldo me lo trovavo sempre in tasca ed ogni trattenimento che capitava non me lo perdevo. La mia passione per la musica aumentava sempre di più: in certi momenti la sentivo tanto forte in me che mi sembrava di scoppiare”.
Spostarsi per la musica, cercare un posto dove trovare gente che vuole condividerla: è la miccia che muoveva Casadei e muove da sempre le grandi platee in cerca di vibrazioni danzanti, dai riti sciamanici ai rave, passando per i club fumosi, i circoli culturali, gli stadi, le arene e – in Emilia-Romagna – per le aie, le balere, le cà del liscio, i festival dell’Unità e dell’AVIS, poi per le discoteche e per le notti bianche e rosa…È una specie di demone che scatena da sempre questi fenomeni e innesca spesso anche le rivoluzioni poetiche, i sussulti della creatività musicale. Come se un luogo appropriato, dove la gente può immedesimarsi col contesto musicale, fosse la conditio sine qua non dello sviluppo estetico, il suo grimaldello dapprima sociale e poi poetico.
Non stiamo teorizzando a caso, non stiamo osando elucubrazioni prive di riscontri. Perché ovunque gli spazi della musica hanno macerato la nuova musica. L’hanno vivificata, l’hanno fatta fermentare. Da sempre si possono descrivere le stagioni di uno stile, di un genere musicale o di un fenomeno sonoro, ballonzolando negli ambienti dove questi stessi movimenti vengono “inscenati”. Badate bene, il termine è da prendere alla lettera, ovvero “messi in scena”.
Peraltro la passione per il ballo in Romagna – come segnala Paola Sobrero in un bel saggio titolato “Il Demone del ballo” (in “Romagna Mia”, Minerva Edizioni) – nonché il suo legame con la riconoscibilità e la condivisione dei luoghi dove viene celebrata, è già testimoniata in un poema in versi dialettali del XVI secolo di un anonimo autore cesenate – antesignano della poesia dialettale romagnola – che dedica un intero canto alla descrizione di una festa da ballo organizzata in uno dei borghi fuori porta, dove tutte le ragazze che si ritenessero ballerine accorrono in un camerone che poteva contenere un migliaio di persone. Per raggiungere il luogo della festa fanno cinque sei miglia di strada a piedi, indossando scarponi sulle scarpine da ballo, rovesciandosi in testa i vestiti per non sciuparli, dandosi poi ad un ballo sfrenato, sotto gli sguardi vigili di "vecchiette prudenti" che di tanto in tanto le rinfrescano con fiaschetti di vino. C'è una coppia di ballerini che si distingue dalle altre e "non si potevano trovare altri due che fossero più agili di piede e nemmeno se ne trovavano che sapessero muovere il corpo in modo più spedito e più garbato e, quel che importa, che sapessero fare correttamente il puntagarretto, come facevano loro due" (Pulon Matt: poema del 16 secolo in dialetto romagnolo, Lugo, Walberti, 1997, p. 147). Una descrizione che sembra non di cinquecento ma al più di cinquant'anni fa, capace di farci già vedere quel “profumo del sudore” che muoverà le folle dei sabati sera, in riviera e collina, in città e in campagna.  
Per le situazioni e le modalità che ne accompagnano l’affermazione a partire almeno dalla metà dell'Ottocento, “il fenomeno del ballo pubblico e popolare condiziona e rivoluziona i modelli ludici, aggregativi e ricreativi praticati nei tradizionali ambiti festivi, coinvolgendo i diversi ceti sociali, gli ambienti urbani e rurali, i sodalizi sorti a scopo prevalentemente ricreativo come quelli di natura ideologica e politica. Un fenomeno che per le proporzioni e l'entità che raggiunge assume in Romagna specifiche connotazioni di identificazione e di sviluppo” (F. Chiocci, La filiera del liscio, in Lavorare nei media produrre cultura. Definizioni e ibidem, p. 195). Queste musiche si basavano essenzialmente sull'andamento veloce e sul virtuosismo tecnico strumentale e le coppie di ballerini erano costrette a un 
vero e proprio tour de force specialmente a causa dell'ossessione ritmica e della lunghezza dell'intero singolo set danzante. Infuocati ballabili interpretati da piccoli complessi che li eseguivano in ampie sale da ballo (e' cambaròn come si chiamavano allora tali ambienti) affollatissimi di persone vocianti e allegre, affumicate dai lumi a petrolio e frastornate da suoni che arrivavano ai loro orecchi sempre assai distinti e brillanti, nonostante la mancanza di qualsiasi mezzo di amplificazione.
Ancora gli spazi, le cattedrali del divertimento come fucina di passioni, vero e proprio serbatoio della vis musicale e dell’energia ludica…“Dal palco al soffitto – ricorda ancora Secondo Casadei nel suo Diario – c'era poca altezza tanto che bisognava stare un po’ curvi e la gente per guardarci doveva tenere il collo proteso verso l'alto, rischiando un sicuro torcicollo. Eravamo quattro elementi: violino, clarino, chitarra e contrabbasso. Per leggere bene la musica avevamo una candela appoggiata all'asse dove tenevamo la cartella con gli spartiti. In mezzo alla sala c'era un lume a carburo e negli angoli due lumini a petrolio che servivano per i casi di emergenza. Essendo il pavimento di mattoni grezzi c'era un gran polverone, ed a fine serata, verso il mattino eravamo irriconoscibili”. Immagini epiche, luoghi che inevitabilmente accendono narrazioni mitiche. Come Zaclèn, ovvero il demiurgo del liscio Carlo Brighi, anni avanti a Bellaria, così Secondo, nel 1928 si stabilisce in un posto del turismo nascente, Gatteo Mare, non abbandonando, di certo, i luoghi soliti della musica popolare: aie o cameroni. 
Quello dei nuovi balli di coppia, del valzer, della polka e della mazurka di provenienza austriaca e mitteleuropea, che si impone come modello festivo di intrattenimento pubblico con i suoi luoghi deputati: teatri, saloni municipali, sedi di circoli, club, casini, piscaze in ambito urbano (le piscaze erano feste pubbliche di ballo che si svolgevano in grandi locali spogli e dimessi, soprattutto in ambito urbano della Romagna); mentre in ambito rurale e contadino, nelle campagne, si ballava alla butèga, e il ballo si era
trasferito nelle “cameracce”, spazi improvvisati accanto a spacci commerciali o osterie, luoghi di ritrovo per il gioco delle carte e il consumo del vino, che all’occasione si prestavano per feste e veglie danzanti, ospitando contemporaneamente le sedi dei circoli politici. Proliferano e si moltiplicano club, circoli cittadini, feste e ricorrenze di un calendario civile e laico che si affianca e compete con quello religioso. I ricorrenti “veglioni rossi” hanno ormai attribuito una precisa connotazione di classe alle diffuse feste da ballo organizzate dai circoli politici e non molto diverse, nelle loro modalità, da quelle di altri circoli ricreativi, benché ritualizzate dall’immancabile intonazione, alla mezzanotte, dell’Inno dei lavoratori.
Con il boom del Liscio Nazionale di Raul Casadei negli anni settanta, sulla fascia del litorale adriatico la nascita degli stabilimenti balneari e lo sviluppo dell'industria dei bagni favorisce un incremento del ballo e delle sue feste legato alla mondanità e alle stagioni estive. “La progressiva affermazione di nuovi modelli di svago, il proliferare di ulteriori ambiti di sociabilità, l'imponente adesione dei ceti popolari ai dilaganti credi politici si innestavano – ricorda ancora Paola Sobrero – a rendere più propulsiva la suggestione del ballo e delle occasioni festive ad esso legate, su di una propensione dei romagnoli per l'esibizione, lo scatenamento, la sfrenatezza, la passionalità e l'irruenza” (ibid.). Dimmi cosa balli e ti dirò chi sei, sembrava suggerire il refrain imperturbabile del liscio delle balere e delle spiagge. Se le sale da ballo americane degli anni Venti e Trenta tendevano a un lusso di ispirazione hollywoodiana, nell’Italia del boom economico e dell’industrializzazione la pista da ballo, che prende il nome di balera, ha aspirazioni più modeste. Coperta o scoperta, generalmente in periferia o in campagna, la balera è un’istituzione che deriva dal bal publique francese affermatosi sin dal XV secolo dapprima nei giardini e nelle piazze, poi – a partire dal XVII secolo – nei luoghi chiusi e nei teatri. Il complessino che esegue i balli è originariamente costituito da una fisarmonica, un clarinetto, un contrabbasso, un sassofono e un violino. Ma con gli anni la formazione base si è modificata di molto fino ad assomigliare in tutto e per tutto a un gruppo pop, con la sola eccezione del clarinetto in do e della fisarmonica. Il repertorio è formato dalle cosiddette danze di
sala, largamente standardizzate: le danze del liscio – valzer (viennese e inglese), quick step, slow fox, tango, polka, mazurka – le danze “latino-americane” (samba, rumba, cha cha cha, paso doble, jive) e qualche concessione alle mode del momento (dalla lambada alla macarena). Nella balera tutti ballano con tutti, giovani e adulti, vecchi e bambini, senza discriminazioni sociali, estetiche o sessuali (per esempio due donne o due uomini tra loro). 
La mia carta d’identità, di romagnolo d’alta Romagna, di San Piero in Bagno per la precisione, svela un pedigree adolescenziale, celebrato tra le fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ‘80, in cui le balere erano già quasi discoteche, in cui i riti collettivi cominciavano a trasformarsi e, in molti casi, a raffreddarsi. Ma lo stesso pedigree mi ha permesso anche di vivere a tutti gli effetti ancora quell’età dell’oro (che io peraltro da amante del jazz e del rock disdegnavo), di condividerne inevitabilmente gli appuntamenti e i riti, di scoprire le promiscuità un po’ kitsch che solo in quella fase di passaggio, tra il trionfo e il declino, venne celebrata. Esempio tipico in questo senso proprio lo sfrenato eclettismo del repertorio, con le orchestre che potevano passare da una mezz’oretta di liscio a qualche lento, poi a tre o quattro pezzi stranoti di cantautori e infine a una virata su qualche pezzo di rock classico, per poi subito dopo ricominciare col liscio....Allo stesso tempo, in quel momento c’era anche un’inusitata promiscuità nel target del pubblico, quel “tutti ballano con tutti, giovani e adulti, vecchi e bambini” cui accennavamo poco fa. Una convivenza tra generazioni che poi avrebbe subìto sforbiciate e selezioni sempre più consistenti, rigorose, ermetiche. Anche per questi particolari caratteristiche gli spazi della celebrazione del rito musicale erano importanti, cruciali. Il luogo in cui i repertori musicali vengono eseguiti è senz'altro un elemento caratterizzante per definirne la funzione, poiché in alcuni modelli sociali la musica riveste un valore simbolico che in altre culture non ha. 
“La musica non è mai sola”, diceva il compositore Luciano Berio. Essa nasce e si articola in molteplici forme e con diverse funzioni ovunque esiste vita e comunicazione umana. Perché la musica, anche quando non trasmette un messaggio specifico e traducibile in parole, è una forma di comunicazione, che riflette e
interagisce con il contesto sociale nel quale viene generata e si agita. La musica, in tutte le sue manifestazioni, riflette l’interazione tra fattori universali legati alla natura musicale dell’uomo, e fattori sociali e culturali. I prodotti artistici e musicali di una società non sono espressioni astratte o “rituali” di fenomeni culturali: essi sono dei commenti consapevoli sulla condizione umana, esprimono i rapporti dinamici tra natura e umanità, e tra le persone nella loro esistenza in diverse culture in diversi momenti. La creatività collettiva di una comunità nutre la vita interiore dell’individuo che ne fa parte, la creatività individuale si nutre del patrimonio espressivo della comunità e lo rianima. Nella musica “d’arte” il riferimento diventa più allusivo e astratto e il commento risiede nella musica stessa che attraverso dei procedimenti più o meno complessi acquisisce vari gradi di emancipazione estetica rispetto al proprio contesto sociale. Nella musica “popolare” il riferimento al contesto sociale è più esplicito ed essenziale. 
“Fino alla fine degli anni novanta il mondo complesso che vive e si articola intorno al liscio è divenuto "parte integrante dell'identità romagnola" e della sua vita produttiva". La pluralità di soggetti, di eventi, di protagonismi, di situazioni, di mestieri che popolano questo pianeta vanno dalle orchestre alle scuole di musica e ballo; dalle edizioni musicali alle case discografiche; dai locali da ballo alle agenzie di spettacolo; dai media (televisioni, radio, riviste) alle fiere e ai saloni dedicati; dalle associazioni ai fans club. Non v'è dubbio che questo mondo assuma le caratteristiche di una imponente industria culturale innestata sul collante di una presunta e reale identità territoriale che attinge ad un sapiente "mix di tradizioni locali e mercato nazionale", variamente articolata e mescolata con le forme e i simboli ormai collaudati di una immagine del folklore romagnolo fatta di gastronomia, di sagre, di gruppi in costume, della spettacolarizzazione di tradizioni rurali perdute: come quella degli sciucaren, gli schioccatori di frusta a suon di liscio”. (P. Sobrero ibid.)
Un’industria che poi all’inizio del terzo millennio si ingolfa quasi completamente, surclassata dalla digitalizzazione degli strumenti musicali (che fa sì che in pochi anni le orchestre si riducano a due-tre elementi), dalle playlist delle discoteche, dalla chiusura a compartimenti stagni del divertimentificio generazionale. E naturalmente anche dal crac creativo di una musica, il liscio, che aveva veleggiato per decenni dimenticandosi di macerare, fermentare e ricrearsi a livello di linguaggio, di linguaggi stilistici. Roberto Leydi aveva ragione considerando - dal suo punto di vista di etnomusicologo - che la tradizione 
popolare e folklorica romagnola offriva “un esempio eclatante di manipolazioni, invenzioni e reinvenzioni progressive, operate e legittimate in un percorso che va dai primi del Novecento agli anni del boom turistico, seguendo il doppio binario della “defunzionalizzazione a fini turistici di prodotti originariamente folklorici” e della “divulgazione di prodotti falsi con l'etichetta di folklore” (R. Leydi “Diffusione e volgarizzazione”, in “Storia dell’Opera Italiana”, EDT, 1988, pag. 304). Una musica, dunque, popolare ma non folklorica: popolare in quanto ibrida, meticcia, frutto di pratiche che mescolavano modalità di trasmissione orale, autodidattismo, formazione "colta", fruizione "moderna" e secolarizzata, fuori cioè dalla ritualità tradizionale. Votata pressoché esclusivamente all'intrattenimento danzante. E però anche una musica prodotta “dal popolo per il popolo”, direttamente funzionale all'uso, funzionale soprattutto alla danza, al ballo di coppia, che ha accompagnato i momenti più felici delle generazioni che si sono affacciate alla storia di quelle terre. Musica nel tempo costantemente riprodotta e rimaneggiata, che solo nel secolo scorso ha trovato padri e autori e, oggi, esangui epigoni in playback. 
Dunque, dicevamo, perché non ripartire dai luoghi, per provare a riaccendere una miccia ormai spenta, a smuovere una brace forse non più ravvivabile? Se è vero che la storia, anche quella musicale, “non si ripete ma fa rima”, come segnalato dallo scrittore americano Mark Twain, ci potrebbero essere ancora delle chances per riaccendere il fuoco di un movimento in fase di preoccupante glaciazione. 
Dunque i luoghi. Quali? Buttiamo là qualche opzione, ma mettiamo le mani avanti, si tratta non di soluzioni, bensì di piccole tracce, spaesate e titubanti, di alternative possibili, tutte ancora da verificare, tutte da corroborare. 
Il primo luogo che citiamo è un non luogo. Sfuggente, mobile. Che si rifà idealmente alla filosofia delle utopie pirata e dei rave. Si tratta della Mazurca Klandestina, da imitare e rinnovare ad uso e consumo di una ritrovata vitalità della panoplia degli stili del liscio. Quindi non solo la mazurca, ma anche valzer e
polche e tuti gli altri stili e le danze che potrebbero essere inventate nel frattempo. Cos’è la mazurca Klandestina? 
La Mazurca Klandestina, con la Kappa del Punk e di Kossiga ministro dell’interno, è per suo statuto – concepito collettivamente, in modo acefalo – un’azione poetica il cui senso risiede nella temporaneità e nella clandestinità. La clandestinità, che si rispecchia concretamente nell’organizzare le notti di danza senza chiedere permessi amministrativi, e lasciando gli spazi intonsi dopo il loro utilizzo, rappresenta la necessità di muoversi negli interstizi lasciati liberi dal “potere” per evitare di replicarlo in modo opprimente, per dimostrare in ottica umanitaria di essere in grado di gestire la propria libertà; la temporaneità, invece, è legata strettamente alle possibilità di sopravvivenza della clandestinità, che deve essere inevitabilmente limitata nel tempo prima di essere “scoperta” e schiacciata dalle istituzioni. Nel suo saggio "Utopie “klandestine” – l’intimità della danza per fruire in modo nuovo della città e del tempo libero” (Mimesis 2015) l’etnografa Valentina Beccarini analizza il fenomeno dimostrando come un esperimento di trasformazione di vie e piazze in piste da ballo, fatto di svago svincolato dai circuiti commerciali, alimentato dall’utilizzo di mezzi virtuali di coinvolgimento, non sia da intendere come una forma di utopia, bensì come un’«eterotopia» (per dirla con Foucault), un’utopia localizzata, un luogo aperto in cui vengono sovvertiti gli obblighi spaziali che condizionano le nostre vite.
Per spiegare questa esperienza di intensità limitata nel tempo, ma che può dare forma a una vita intera, l’autrice del saggio riporta le parole di una ballerina di Mazurca Klandestina: “[…] è come essere dentro un contenitore, una cornice in cui è lecito sperimentare senza sentirsi giudicati o fraintesi. E ciò che si vede al di fuori, per chi resta a guardare, è forse sì, una danza effimera, magari anche dolorosa per la sua precarietà, ma una danza piena di senso, di verità, di significato, molto più che in una qualsiasi coreografia tecnica messa su a tavolino per una performance da palcoscenico”.
Sono eventi di cui non troveremo tracce neanche nelle cronache locali, ma che si sedimentano nella memoria virtuale che si accumula nell'archivio della comunità e costituisce un tratto distintivo e un «documento» della memoria collettiva.
In che cosa consiste l'elemento di perturbazione? È presto detto: rispetto alla «tradizione», o meglio alle tradizioni locali, cui la performance si ispira, è avvenuto un atto che consiste nel “tradurre la tradizione” (“Tradurre la tradizione: vecchie forme, nuove sembianze, silenzi persistenti”, a cura di Giorgio Botta, Giappichelli Editore, Torino, 2011) e, quindi, una sorta di tradimento come spesso accade nelle traduzioni. La scia lasciata dall'impalpabile ridisegno di luoghi e spazi urbani lambisce quel crocevia tra strade e radici che solo origina le culture e scaturisce dall'irriducibile umano bisogno di luoghi comuni da abitare. Chi vi partecipa aderisce, senza riserva, alla frase in epigrafe di Emma Goldman: «se non si balla, non è la mia rivoluzione». Essendo chiaramente Mazurca Klandestina un’eterotopia più vissuta a livello pragmatico e corporeo, che condivisa ideologicamente, ed essendo la mazurca stessa una danza popolare di origine ambigua che si presta a molte varianti e declinazioni, è dunque utile per ricordare che i percorsi di ridefinizione del “fuori”, parafrasando la studiosa Federica Castelli (Lo spazio pubblico, Ediesse, 2019), non possono fare a meno della dimensione fisica e materiale dello spazio pubblico, e soprattutto della consapevolezza che esso non è solo percorso da opinioni e idee, ma anche da corpi e sensazioni.
Una strada completamente in festa, un mare di musica e gente che balla in allegria: non siamo in America latina o nei quartieri di Cuba, ma in Italia, in una delle tante bellissime piazze che, colorate di ballerini, si animano creando una magica atmosfera. Si balla da mattina a notte inoltrata e pochi sono gli strumenti utilizzati: un piccolo impianto di amplificazione, o musicisti improvvisati, candele per illuminare le ore notturne. Di questo fenomeno parla ad esempio Valeria Angela Bianchi, romana, autrice-attrice di teatro e amante delle arti, della manualità (costruisce oggetti e pupazzi per il teatro di figura) e della musica (suona l'organetto diatonico), organizzatrice di eventi neo-trad, nonché insegnante di danza, in particolar modo della mazurca. L’ha incontrata Cinzia Salluzzo Rovituso in un bel reportage per “Il periodico Italiano”: “Il
termine mazurka klandestina è nato in Italia alcuni anni fa e con "klandestino" non si vuole indicare nient'altro che la decisione di appropriarsi di spazi pubblici per ballare senza dover chiedere il permesso ufficiale. Non è nulla di nuovo, in verità: da anni lo si faceva già per il tango. La novità sta nel tipo di danze che si ballano durante questi eventi: oltre alla mazurka francese, infatti, si ballano le cosiddette danze neo-trad. Sono danze tradizionali di varie regioni della Francia (come bourrèe, andro, anterdro…) o balli provenienti da diversi Paesi europei, spesso persi nella memoria di pochi e successivamente recuperati o, a volte, profondamente modificati (chapelloise, polke, circoli circassiani, polske e valzer). Il bello è che le persone appassionate a questi balli stanno aumentando a dismisura: si sta formando, cioè, una specie di comunità folk di danzatori internazionali”
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Perché ci si dà appuntamento e si balla nelle piazze? È una novità tipo il flash mob?
"No, non ha nulla a che fare con in flash mob: non è qualcosa che si organizza per stupire o attirare l'attenzione per manifestare o dimostrare qualcosa. Lo definirei più un "rave" di danze popolari, anche se la parola rave è sempre associata alle droghe e di sostanze stupefacenti nelle mazurche klandestine non ce n'è nemmeno l'ombra. L'unico scopo è ritrovarsi e ballare, l'unica droga è il ballo. Riusciamo a ballare senza interruzione dalla sera fino alle 8 del mattino successivo. È una magia: ci si carica di adrenalina, di musica, di volteggi e di desiderio di ascolto reciproco, di contatto”.
Il ballo folk transalpino e transeuropeo, ma anche il liscio; in strada, come pacifica protesta musicale contro la frenesia della città e la mancanza di spazi pubblici. E' la tattica del gruppo Mazurka Klandestina, che a Milano riunisce quasi mille persone: si individua un luogo aperto, si portano uno stereo a batterie (o in alternativa un duo acustico) e il borotalco per fare scivolare le suole delle scarpe sulla pista, poi si balla. La prima riunione serale risale a novembre 2008 in piazza Affari. Nel Febbraio 2014 i clandestini sono 
calati a Napoli in piazza del Plebiscito “Sono due le tipologie di appuntamenti organizzati a Napoli per celebrare la Mazurka e gli altri balli – spiega Pedro deI Mazurkari Partenopei – la scheggia, che si tiene di pomeriggio e che dura solitamente un’ora all’incirca, la clandestina che si svolge di sera e di notte”. Nel Giugno 2018 la mazurka klandestina si è svolta nottetempo lungo la linea di confine tra Italia e Slovenia a Gorizia-Nova Gorica, un centinaio di persone convocate con il tam tam social. Nella mazurka klandestina che si celebra ogni settimana a Bologna infine, il passaparola ha portato anche gli Erasmus dalla Germania, dall’Olanda, dalla Francia. C’è qualcuno dall’Afghanistan e qualcuno dall’India. Il cerchio diventa più grande e si aspetta il prossimo giro di danze. 
Non vi pare un bel mosaico di elettrizzanti appuntamenti, e soprattutto un alveo di spazi – mobili e fluenti – da cui partire, o meglio, da cui ripartire?
Raccogliamo infine un’altra proposta che ha a che fare coi luoghi e con i territori cui delegare il destino di questa musica. È un’idea lanciata dal giornalista Federico Savini in un recentissimo volume, “Il Liscio, memoria e futuro” (a cura di Franco Dell’Amore, Pazzini editore 2025) che raccoglie gli atti del Convegno “Il futuro del liscio dopo Romagna mia”, a cui anche io ho avuto modo di partecipare con una breve relazione, in quel di Rimini, il 18 ottobre 2024. Ebbene proprio a Rimini punta Savini nella riflessione finale del suo saggio “Il liscio romagnolo nel XXI secolo: una storia di restyling”: “L’identità la crei suonando tutto l’anno con gli stessi musicisti…Più che il grande evento spot, dunque, perché il liscio si rilanci insieme alla terra che lo ha visto crescere e prosperare, la chiave di volta per il futuro potrebbe essere l’idea, e la concretizzazione, di una località in cui si suona e si balla tutto l’anno. Più che il modello Notte della Taranta il modello New Orleans, insomma. In fondo Rimini è una città che vive di turismo tutto l’anno. Magari potrebbe vivere anche di musica tutto l’anno. Facendo quello che gli altri non fanno più” (Savini pag. 188). Potrebbe anche essere questo l’escamotage, la “flebo” di cui parlavamo in apertura?
Non ne siamo sicuri, ma non mettiamo il veto al tentativo. Nel frattempo molti locali hanno chiuso, in riviera sono inesorabilmente scomparse le balere e i dancing, per trasformarsi in discoteche, ma sempre di più anche in negozi, appartamenti, B&B, multishop gestiti da cinesi. Molti locali storici, che sono poi quelli nati negli anni Sessanta e Settanta, si sono barcamenati e hanno resistito per un pò, fino ad alzare progressivamente bandiera bianca e reinventarsi con un cambio di comodato d’uso. Perfino la mitica Ca’ del Liscio è stata ceduta per diventare l’attuale Ca’ del Ballo e sancire il suo lento declino. Già, la Ca’ del Liscio, che pur essendo una sorta di ‘elefante nel deserto’ della campagna ravennate, ha sempre sprigionato un senso di allegria in chi transitava lungo il Dismano, forse perché associata alle paillettes degli orchestrali e all’ottimismo superficiale delle canzoni di Raoul Casadei. Che la nuova “Cà” sia uno spazio mobile e sfuggente, “klandestino” come quello dei rave notturni a base di mazurca o sia invece un’enclave cittadina permanente, in quel di Rimini o altrove, come prefigura Savini, è questione ancora tutta da verificare. C’è una terza ipotesi e cioè che questa cosa la decidano i musici, come succede di solito per le rivoluzioni musicali e che lo facciano senza avvisare nessuno, senza partecipare ad alcun dibattito. Semplicemente innescando un piccolo tsunami di creatività che corrobori il liscio, i suoi stilemi, le sue formule, risvegli il suo pigro tran tran e reinventi questo folklore oramai ammaestrato, allineandolo allo spirito dei tempi, proiettandolo finalmente nei codici del terzo millennio, senza dimenticanze, ma anche senza nostalgie fané. Più facile a dirsi che a farsi. Ma è comunque bello sognarlo. Del resto era pure difficile credere ai testi insulsi del liscio nazionale e immedesimarsi nella psichedelia involontaria di “un gabbiano d'argento, nascosto nel vento” (da “Amico Sole” di Raul Casadei/Enrico Muccioli/Altero Al Pedulli), eppure all’epoca ce li siamo bevuti senza battere ciglio.

Valerio Corzani

L'articolo è disponibile anche su WikiLiscio. Per gentile concessione dell'autore

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