Mancarono troppo poche cartine: Nick Drake e “Five Leaves Left”

Per colmo di bizzarria la possibilità di incidere un disco per lui nacque proprio da uno dei rari concerti a cui partecipò. Sarebbe risultata normale conseguenza dei fatti se si fosse trattato di chiunque altro ma non per Nick Drake, letteralmente terrorizzato dalla sola idea di calcare un palco. Il suo amico John Martyn:“Io posso suonare ovunque e se la gente non sta zitta le urlo di fare silenzio… Nick, semplicemente, non poteva”.  Caso volle che quel 28 febbraio 1968 durante un festival di beneficenza alla Roundhouse di Londra, tra il pubblico (in attesa di esibirsi col proprio neo-gruppo Fairport Convention, che quattro mesi dopo avrebbe pubblicato l’esordio discografico) ci fosse il bassista Ashley Hutchings. Folgorato dal carisma d’insieme emanato da quello sconosciuto e impacciato ventenne, lo segnalò immediatamente a Joe Boyd.
Fortunatamente Nick Drake non ha conosciuto l’agiografia comune che globalmente gli è stata appiccicata addosso post-mortem (talvolta anche in perfetta buona fede) ignorando perfino l’amaro testo di “Fruit Tree”. Con la fama non ebbe proprio niente a che fare, i pochi che lo hanno conosciuto hanno sempre riferito somigliasse più a un fantasma, “troppo magro” avrebbe detto forse Jacques Brel. In vita propria non si è mai sognato di atteggiarsi ad artista. Troppo timido, tormentato, disadattato e depresso, nonostante la figura angelica, un’adolescenza feroce aveva fatto di lui, un errore ai suoi stessi occhi: dissociato dal mondo quanto estraneo a sé stesso. Caratteristiche perfette per soddisfare cinicamente, a destino avvenuto, il morboso bisogno di “eroi perdenti” o “maledetti” di cui la scena rock è perennemente così affamata d’aver stilato perfino un “club dei 27” (elenco di celebri cantanti defunti alla stessa età di Nick tra cui Robert Johnson, Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrrison, Kurt Cobain, Amy Winehouse). Con queste premesse stento a credere pure che sarebbe invecchiato discretamente in questo mondo di “mercanti d’oblio e venditori d’illusioni” per citare il poeta francese Maurice Blanchard (1890 – 1960). Da decenni salta fuori dalle ispirazioni di artisti di ogni genere musicale di qua e di là dell’oceano, purtroppo ogni tanto pure da posti ancor più impensati: pubblicità commerciali (Cabriolet Volkswagen-Pink Moon) (1999) o lista preferenze di ex-presidenti americani (Barak Obama-One Of These Things First) (2024). In generale l’opera prima di un autore è quella più meditata, rappresenta una summa sincera di cose intime sovente taciute all’esterno o non comprese. Joe Boyd nel momento di produrre l’esordio di Nick Drake aveva fisso in mente quello di Leonard Cohen avvenuto l’anno prima. Ammirava sinceramente quegli arrangiamenti spogliati, l’assenza di batteria, la messa in primo piano della voce del
cantante; ammirava anche l’uso delle corde per niente pop (come puntualmente avveniva all’epoca) che Joshua Rifkin aveva scritto per “In My Life” di Judy Collins del novembre 1966 (e dove per la prima volta si erano udite due canzoni di un Cohen ancora del tutto sconosciuto al pubblico musicale). Il geniale produttore si poneva intimamente il segreto obiettivo di riuscire nell’ambiziosa impresa di amare quei suoni anche cinquanta anni dopo l’incisione. Oggi, con sincera ammirazione, si può provargli di esserci riuscito in pieno mentre il culto dei posteri conierà numerosi accostamenti per questo esordio quali “Nick Drake: il Van Gogh della musica”. Merito anche del lavoro in studio di Robert Kirby che si rivelerà, nonostante l’inesperienza dei suoi diciannove anni, addirittura insuperabile. Ascoltare il disco fu probabilmente un po’ come leggere versi del primo canto dell’Inferno dantesco: la percezione del terrore di muoversi in una selva oscura. Quando comparirà in tutta la sua fragilità sul mercato inglese, le radio trasmettevano quotidianamente “Honky Tonk Women” degli Stones, “Bad Moon Rising” dei Creedence Clearwater Revival, gli hit di Stevie Wonder o dei Bee Gees. Le riviste specializzate lo liquidarono sbrigativamente, il mercato discografico americano lo ignorò bellamente, nonostante gli sforzi promozionali di Boyd le vendite non superarono le duemila copie di numero. Trent’anni esatti dopo la scomparsa di Drake, i redattori del francese “Télérama” inseriranno “Five Leaves Left” in quinta posizione nella loro lista dei “cinquanta dischi essenziali nella storia del rock”. 

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