Frullando insieme Blake e Graham, Baudelaire e Buckley, Rimbaud e Renbourn, Keats e Davis senza assomigliare neanche lontanamente a nessuno di loro, “Five Leaves Left” è la descrizione dell’Innocenza Perduta di Nick Drake. Quando decise di titolare il raggelante disco come l’avvertimento (contenuto nei pacchetti Rizla) che le cartine per sigarette fai-da-te stavano terminando, ancora una volta il destino stava giocando con lui. Per una macabra coincidenza non erano solo quelle ad essere a “meno cinque” dalla fine ma anche gli anni della sua embrionale esistenza terrena. Il valzer lento in ritmo ternario dell’iniziale “Time Has Told Me” sembra infondere saggezza; la “rosa senza spine” più volte utilizzata nei testi poetici è metafora romantica resa celebre dalla canzone d’amore “The (Sweet) Lass of Richmond Hill” scritta nel 1789 per la sua futura sposa, dall’avvocato-drammaturgo irlandese Leonard McNally (musica di James Hook). E saggezza sembrerebbe possedere anche la seguente, autunnale e mistica “River Man” in cui il giornalista Jerry Gilbert volle intravedere il personaggio mitologico greco di Caronte mentre Betty potrebbe evocare l’omonima madre dell’“The Idiot Boy” di William Wordsworth. Ma molte potrebbero essere le supposizioni letterarie sul tema dell’illuminazione e della rivelazione, su tutte ovviamente l’ombra di William Blake (1757 – 1827) così sovente riscontrabile nelle canzoni di Drake. L’“innocenza” rappresenta l’apprendimento, l’imperativo di lasciare una rassicurante dimora familiare, per percorrere da solo le strade del mondo e ottenere così le risposte necessarie per continuare. “Three Hours”, brano più lungo dell’intero disco superando i sei minuti di durata, nella copertina apribile del disco compare addirittura arricchito di una quarta strofa, interamente non cantata: “avevamo tutto il tempo ma non siamo riusciti a rendercene conto…” (anche il titolo varia in “Sundown”). L’ipnotica canzone profuma musicalmente d’orientalismo mentre il testo contiene inusuali (per Drake) allusioni sessuali, un po’ sull’onda delle liriche di Cohen che utilizzava spesso termini come “master” e “slave” in argomento amoroso. Gli archi drammatici del barocco “Way to Blue” viaggiano mesti mentre il canto, su un filo di rasoio come si trattasse di un sussurrato, si indirizza a una figura sconosciuta dove ognuno può vedere quello che preferisce: dalla felicità alla malinconia. Le strofe
contengono ancora una volta, interrogazioni sul senso dell’esistenza e il cammino da intraprendere per raggiungere il sole. Il panteismo di Nick conferisce sempre agli elementi della Natura dimensioni sacre e simboliche, sorprendentemente fa la sua apparizione anche un breve riferimento all’episodio miracoloso dell’Antico Testamento nel quale Gesù ridona la vista a un mendicante cieco alle porte di Gerico. Il barocchismo prosegue nel crepuscolare “Day Is Done”, questo stile musicale conobbe il suo apogeo verso la metà del XVIII secolo, il cosiddetto “basso continuo” dona orientamento armonico e sostiene la melodia mentre l’armonia si sviluppa sotto forma di accordi. Non è per niente semplice farlo con la chitarra, Nick utilizza delle accordature molto personali per suonare in contemporanea basso continuo, melodia e accompagnamento. Ma il sestetto d’archi diretto dall’arrangiatore Robert Kirby che lo accompagna, non è da meno, entrando in punta di piedi alla fine dell’introduzione e sottolineando con cambi di volume d’esecuzione, i differenti momenti della canzone. Il sole che “sprofonda nella terra quando il giorno è finito” suggerisce il termine dell’esistenza quando ogni piccolo gioco della commedia umana diventa insignificante. Sulle prime edizioni in vinile, i titoli “Way to Blue” e “Day Is Done” compaiono invertiti erroneamente nell’ordine di copertina rispetto alle tracce del disco. “'Cello Song” sembra una supplica rivolta da un anonimo qualsiasi a una diafana figura femminile, musa infantile e sovrannaturale come tante in quel periodo fine anni ‘60. La citazione “spring is sprung” (la primavera è sbocciata) è frase comunemente usata come metafora a indicare un’improvvisa esplosione di vita o attivismo ma nel mondo anglosassone è anche titolo di una filastrocca generalmente attribuita
all’americano Ogden Nash ma resa celebre in Inghilterra da Spike Milligan. Sul flauto soave di Lyn Dobson, la ballata naïf “The Thoughts of Mary Jane” descrive ancora un’immagine femminile idealizzata, misteriosa, impenetrabile, vista come “principessa del cielo” e della quale non sono prevedibili né sospiri, né sorrisi, né incontri. Pare l’eterea visione, quasi d’amor cortese, di un fanciullo romantico senza nessun riferimento alle complessità relazionali reali o accenni alla liberazione sessuale diffusa in quei “swinging sixties”. Con tutta probabilità Mary Jane (o Jane, come la si ritroverà in due canzoni del disco seguente) non esiste come persona, è nome generico di una somma di ragazze incontrate da Nick e non è neppure certo se “fisicamente”. Scontato ricordare come il termine sia anche evidente riferimento alla marijuana, abbondantemente assunta all’epoca più che con intenti di piacere, per facilitare il raggiungimento di quiete che portasse illuminazioni. Qualcuno ha paventato l’idea che la protagonista potesse riferire alla graziosa amica aristocratica Alice Ormsby-Gore che aveva affermato a più riprese di adorare Nick. Diciassettenne era stata per un lustro la compagna di Eric Clapton, quando entrambi facevano uso massiccio di eroina; morirà miserabilmente nel 1995 per overdose. Curiosamente nel 1972, Ricky Maiocchi (defunto cantante, fondatore del gruppo italiano I Camaleonti) inciderà sul lato B di un 45 giri di musica leggera, una canzone dal medesimo titolo, “Mary Jane”. La vagamente jazzy “Man in a Shed” narra di un giovane squattrinato che vive in una fatiscente baracca, sospirando nel vedere la ragazza che brama vivere lì accanto invece in una sontuosa dimora e la invita a mollare tutto per rendersi conto che “la baracca è più bella di quanto pensavi”. Diversi fattori e non solo musicali, contribuiscono a renderla meno incisiva delle altre contenute del disco, non ultima l’inusuale e stranamente perentoria affermazione: “l’uomo sono io e la ragazza sei tu”. “Fruit Tree” è l’esempio perfetto di come Drake sappia far apparire semplice e limpida una composizione invece agli antipodi. L’atmosfera generale risiede ancora nella sfera barocca ma la
scrittura complessa e l’arrangiamento variato in continuazione, le conferiranno una profondità immortale negli anni. Il testo poi è una impressionante e acuta preveggenza che, col senno del poi, non può non risultare suggestiva: addirittura vengono figurati il ritardato riconoscimento postumo della sua arte e i numerosi pellegrinaggi alla tomba di Tanworth-in-Arden. A spingere verso l’utilizzo della simbologia arborea potrebbe avere contribuito la lettura dei versi di Arthur Rimbaud. Danny Thompson è particolarmente ispirato dall’armonia della conclusiva “Saturday Sun” e il “Godfather of British Blues” Alexis Korner, ne inciderà presto una sua versione con Nick ancora in vita. E’ una canzone di rivelazione, “Saturday” è il “Sabato” ma “Saturn’s Day” è “Saturno” che nella mitologia greca presiede il Tempo e viene comunemente associato alla Malinconia. Il testo contiene anche qualche accenno buddista a Rinascita e Reincarnazione, riflesso di un’epoca in cui si cercava generazionalmente una elevazione spirituale. Ma alle assolate promesse succede immancabilmente una domenica...piovosa che, dopo un rallentamento sonoro, si siede su questo SabatoSole a piangere, mentre l’archetto del contrabbasso di Danny Thompson l’accompagna alla fine. Non riesco proprio a immaginare quale altro disco avrebbe potuto permettersi di escludere dalla scaletta brani quali “Clothes Of Sand”, “I Was Made To Love Magic”, “Joey”, “Mayfair” o “Time Of No Reply”!! Nick Drake rintanato nei giri complicati delle dita sul manico della chitarra e nelle sue bucolico-polisemiche liriche, si immedesimava in un “parassita”,
sembrava un petauro dello zucchero in ambienti perennemente a lui inadeguati. Il “Poor Boy” di cristallo ha conosciuto unicamente intima introversione e abissi di disagi enfatizzati emotivamente dall’adolescenza senza fine. Nessuno e nessuna canzone potrà raccontare la sua età adulta e il seguito della storia, come in un crudele romanzo poliziesco dalle ultime pagine strappate, come nel viaggio inutile dell’ultimo metrò vuoto della notte. Il giovane nebbioso che convertì in pepite di forma-canzone le sue tribolazioni quotidiane non saprà mai quanto siano rimaste intimamente durature, “pensiero incessante e ardente che continua a oscillare tra noi” avrebbe sentenziato il poeta inglese Philip James Bailey. Nonostante la frase di “Anthem” sempre citata da tutti, non è stato certo Leonard Cohen ad affermare per primo che le sofferenze umane possano trasformarsi in fonti di luce, comunque la breve opera di Nick Drake ne è diventata, col tempo, decisamente una concreta prova. Canzoni folk? Non propriamente, anche se viene collocato in quel “movimento”, nessun “celtismo” e Drake risulta imparagonabile a chiunque altro ne faccia parte; cantava oltretutto con un accento british in contro-tendenza, un po’ come faceva unicamente Syd Barrett. Piuttosto un cantautorato barocco, pastoral-classicheggiante, vestito di eterei ritmi che, in men che non si dica, poteva indirizzarsi a jazz, bossa nova, Debussy e Ravel, tra complessi matrimoni di accordi minori o maggiori. Questo ecumenismo musicale tra generi era in voga alla fine degli anni ‘60 del secolo scorso. Men che meno Drake è considerabile folk nella composizione dei testi che, riferendo delle cronache dei propri turbamenti giovanili, traboccano si, di
simbologie naturistiche ma a differenza dei tradizionali, non narrano leggende popolari. Un po’ Gozzano, un po’ Verlaine. A meno che non vogliamo fermarci all’approccio delle immagini, dove parole e rime rimandano all’ingenuità pittorica di un’anima semplice del mondo rurale contadino. Nick era comparso più o meno all’improvviso da una stanza esistenzialista quasi come quella di Emily Dickinson, senza l’utilizzo di psichedelici suoni tipici della scena musicale di allora. L’intera sua “carriera” si concretizzerà in tre dischi (dall’impatto musicale diverso tra loro) tra il 1969 e il 1972, rigorosamente senza promozioni live ma diventati oggetti mitici da decenni forse per una punizione come quella riservata a Sisifo da Zeus per aver osato annullare la morte. Quei tre vinili sono la recitazione sonora del suo intero mondo. Le canzoni-acquarello che lancerà sottovoce e con tanta leggerezza dalla campagna inglese, hanno raggiunto (dopo un iniziale lungo silenzio) ogni altopiano remoto lungo misteriose frontiere con l’aldilà. Oggi tutti le conoscono, si finisce sempre per amare quello che ci sfugge, quello di cui non si può oltrepassare un limite di comprensione, quei tre buchi neri hanno operato trentatré rivoluzioni al minuto sulle puntine dei giradischi di un sacco di gente. Sono contemporaneamente malattia ma anche cura stessa per questa malattia. Appare chiaro che, data la giovane età, per Nick si trattasse di un morbo blues-visionario composto di albe, piogge, alberi, venti, fiumi, stagioni...più prossimo a una anemoia (dal greco ànemos -
ἄνεμος = vento + noûs - νοῦς = mente, intelletto) che a vera e propria nostalgia. La terminologia inglese “anemosis” ben descrive, in effetti, l’immagine di un albero che venendo attraversato dal vento, finisce col piegarsi di continuo all’indietro, suggerendo in questo modo l’idea di una persona che, sferzata dalla forza del passato e in preda a emozioni e umori esistenziali, vi si ripieghi ugualmente. Una sensazione, insomma, che più che basata su una somma di ricordi e esperienze accumulate negli anni, lo sia sull’immaginazione, sull’attitudine contemplativa. Simulazione di tempi e luoghi mai vissuti realmente ma che la propria situazione attuale di insoddisfazione ha reso particolarmente intensa (tipico di un’epoca formativa dell’individuo come quella adolescenziale). Per il parassita/Drake al contrario della Natura, la spaventosa e tentacolare Londra assomiglia a una enorme allucinazione che lo riduceva all’invisibilità. La città appare lugubre, tetra, spettrale, tra paure e stanchezze i suoi passi non lasciano tracce sui selciati, c’è una totale assenza di gioia nei percorsi urbani, in quegli schizzi d'asfalto dove crede di incontrare solo ombre o intravedere sagome abbozzate, avvolte d'orrore. Sempre più introiettato, considerate le sue tranquille origini borghesi, appare “fuori sintonia” anche rispetto ai coetanei contestatori, hippies o freaks. L’ultima immagine vivente che le sue liriche restituiranno sarà legata a un “Black Eyed Dog”. Nel folklore inglese del XV secolo viene comunemente associato al demonio ma la metafora del Cane Nero (resa famosa da Winston Churchill che soffriva di depressione) è una espressione
già utilizzata nell’Inghilterra del ‘700 da Hester Lynch Piozzi e Samuel Johnson. Associazioni identiche si ritrovano ancora in precedenza nella mitologia antica, a Roma nella poetica di Orazio (40 a.C. circa) e anche di Apollonio (I secolo d.C. circa). Nick finirà serrato in un solipsismo quasi autistico e l’iniziale visione sofisticata e romantica del suo canzoniere sarà inghiottita nelle spire di una “Luna Rosa” che nella tradizione cinese è solo sinonimo di sciagura imminente, che assume quel colore prima dell’eclissi. La ragnatela partita da contrapposizioni aporetiche dentro sé, lo pervaderà del tutto. Le aspettative e le delusioni sulla ricezione dei suoi dischi o l’allontanamento di Joe Boyd non saranno che le scuse esteriori, detonatori di un ordigno esplosivo che non sono mai reale causa di un’esplosione. Per lui nessuna differenza tra vita reale e vita rappresentata nelle canzoni, se qualcuno si prende la briga di ascoltarle di fila tutte, in ordine cronologico avrà chiaro davanti lo scorrere dell’intero suo psicodramma esistenziale. Le miriadi di emozionate persone che nel 1973 crederanno di osservare dalla Terra col binocolo della propria anima aperta, puntato al cielo “The Dark Side of the Moon” si erano perse l’anno prima, il vero lato oscuro della Luna. Quello che non regala scampo a nessuno, che non racconta di pleniluni che recano equilibri di riflessione nel segno della Bilancia, di armonici “risvegli naturali” e neppure di cicatrici emotive. Ma solamente di una astrale incisione chirurgica dove le corde sono bisturi e la voce, una catacomba. Amen.
Flavio Poltronieri
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