“Le mie avventure nel mondo del flamenco sono iniziate quando avevo cinque anni.
Mio padre era un grande appassionato di musiche del mondo, stava completando un master in ingegneria civile a Washington D.C. negli anni ’60 e si innamorò del flamenco. Ne era completamente affascinato. Suonava anche la fisarmonica. Il suo sogno, da sempre, era suonare chitarra flamenca. Era il tipo di persona che si svegliava con gli occhi ancora assonnati, si dirigeva a tentoni verso il registratore a bobina, per ascoltare musica, una bobina dopo l’altra. Mia madre, invece, era una grande appassionata di musica classica persiana. Quindi, nelle mie orecchie, come in uno stereo, ascoltavo costantemente entrambe. Le piaceva molto anche la musica classica occidentale. Avevo tredici anni quando andammo nel sud della Spagna: fu un mese di esperienza andalusa che mi cambiò la vita. Il flamenco non era più un concetto raccontato da mio padre, era qualcosa di tangibile. Potevo vedere i fuochi nelle grotte, le montagne, tutto ciò che era il flamenco”.
Così Farnaz Ohadi, artista diasporica, iraniana di nascita, racconta alla stampa internazionale i suoi primi ascolti della musica che sarebbe poi diventata la sua elezione artistica. L’occasione è la presentazione del suo nuovo lavoro discografico, tenutasi all’Hacienda de Orán, a Utrera, non lontano da Siviglia lo scorso marzo. “L’Iran di quel tempo era pieno di problemi. Stavamo ancora affrontando la guerra (il conflitto Iran-Iraq combattuto tra 1980 e 1988 ndr), e avevo pochissimo accesso alla musica. Non c’era YouTube, non c’era Internet, solo il mio pianoforte e le vecchie cassette di mio padre. In casa la musica era sempre presente, nonostante fosse vietata dopo la rivoluzione”.
La famiglia di Farnaz emigra in Canada nel 1990, dove alla futura artista si schiudono le porte della vastità multiculturale del Paese nord-americano. “Mi sono avvicinata alla danza flamenca, non pensavo nemmeno di poter cantare. Questo dice molto su come in Iran le donne vengano educate a non credere di appartenere al palcoscenico. Cominciai a cantare
flamenco solo nel 1998. L’esplorazione iniziò con i miei tentativi di cantare in spagnolo. Ero distante dallo spirito, ma il mio sforzo era sincero e il cuore era tutto lì. Inizialmente, lavoravo con una cantante persiana e una cantante di flamenco. Cambiavo l’accento della parola dall’inizio alla metà e poi alla fine. Ogni volta una delle insegnanti non era soddisfatta: la maestra di flamenco diceva: “Non capisco cosa stai dicendo, stai rovinando il ritmo”. Tornavo indietro, cambiavo, andavo dalla mia maestra di musica iraniana, e lei diceva: “Non so nulla di flamenco, ma ora il significato della parola è cambiato”. È stato difficile, è diventata un’ossessione. Poi, quando la maestra mi ha detto: “Ora puoi dire alla gente che sei mia allieva”, allora ho capito che andava bene. Il flamenco era diventato la mia vera espressione. Il primo album che ho inciso è stato quello che ha richiesto più tempo. Gli altri due sono venuti quasi di getto. “Breath”, invece, ha richiesto sei anni e mezzo. Si sono avvicendati diversi collaboratori e il suono si è evoluto. Ho studiato flamenco in profondità. È stato un percorso interessante guardarsi indietro e vedere dove ero, dove sono arrivata e dove sto andando. Tutti i traumi, tutto ciò che avevo vissuto, uscivano attraverso il flamenco. Ma quei canti non erano miei. Appartenevano ad altri. Lì è nata la scintilla creativa. Cercavo qualcosa di mio, di personale. Il farsi è una lingua dolce e melodica. Lo spagnolo, e il flamenco in particolare, è molto ritmico. In farsi, la poesia è sacra, quasi divina. Nel flamenco la poesia viene spesso sacrificata per il ritmo. Quindi ho cercato di unirli. Dovevo trovare un equilibrio, senza sacrificare nessuno dei due. È stato un lungo periodo di sperimentazione. Ed è diventato anche un modo per dire tutto ciò che avevo da dire.
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