L’umorismo ebraico

Cohen, disperato, va dal rabbino, “Rabbi, che devo fare? Ieri rientrando a casa, ho sorpreso mia moglie sul divano con il servo”. Il rabbino riflette e poi dice: “Devi licenziare il tuo servo” “Non posso, è il pilastro del mio commercio, i miei affari fallirebbero!” “Allora devi divorziare!” Non posso, chi si occuperebbe della casa, dei bambini e di me se mi ammalo?” Una settimana dopo i due si incontrano di nuovo e il rabbino chiede a Cohen se abbia risolto il suo problema, questi gli risponde: “Certo! È stato molto semplice: ho venduto il divano!”
C’era musica klezmer nel giardino dell’Eden? Non si sa ma quello certo è che tra le pagine della Torah, anche a Budapest o Strasburgo, le due più grandi sinagoghe d’Europa, Sara si fa sempre una grossa risata quando a novant’anni il Signore le annuncia che è incinta al tempo d’esser bisnonna. In un’altra pagina il Signore gioca a palla con il Leviatano, mostro marino, incarnazione di caos e invidia, insanabile peccato mortale. Il sarcastico umorismo yiddish, in permanente dialettica critica con sé stessi, gli altri o con le Sacre Scritture, è una sciarada serissima che tocca parti fondamentali dell’identità, dove pianto e riso hanno pari valore e pari dignità. È questa capacità generale di aprirsi a una visione universale dell’esistenza, la caratteristica basilare che ha distinto anche gli interpreti yiddish dagli altri chansonniers moderni. Un arricchimento tipico della cultura ebraica, offerto sia da spassosissimi racconti, che da memorie legate alle atrocità. Non si tratta di pura comicità (o almeno non per come siamo abituati generalmente a intenderla) ma del tentativo tradizionale di affrontare la malasorte facendo risaltare, attraverso l’ironia, le contraddizioni immancabilmente presenti in ogni sventura. Che la risata risulti espressione culturale importante lo testimoniano le commedie greche o le novelle di Boccaccio, perfino gli studi di Sigmund Freud sul Motto dello Spirito, quando analizza il contenuto inconscio che scatena la risata. La capacità di ridere di sé stessi è oggi merce rara, qualità straordinaria che va perdendosi ogni giorno di più in questo mondo di comuni, dilaganti e del tutto immotivati, egocentrismi. Pericolosissimi come qualsiasi cosa cominci con la desinenza “ego”. Un’ironia che sembra alternativa ai disordini mentali, alle fragilità valoriali e che ha attraversato sconfinate epoche e grandi transizioni. L’illimitata visione comica della religiosità ebraica risulta estremamente originale e oltrepassando irriverente, le frequentazioni spirituali, costruisce traiettorie inusitate, cercando nuovi significati. Graffiando con apparente innocenza, sorridendo e sussurrando, la musica stessa aspira a trovare un senso compiuto di lettura del concreto sociale quotidiano, partendo sempre da ricerca interiore, intima, personale. Anche la storia però si è divertita
parecchio alle spalle del klezmer: al culmine di criminali distruzioni umane e culturali, ne ha spedito genti e arti in America, dove avrebbero potuto facilmente dissolversi come elementi qualsiasi all’interno di quell’enorme melting pot. Ma aveva sottovalutato chi si trovava di fronte: nessuno poteva prevedere che dai loro primi arrivi del 1888, la musica di quei poverissimi emigranti ebrei avrebbe un giorno risuonato stabilmente in ogni luogo del pianeta. Che già nel 1913 sarebbe stato prodotto negli Stati Uniti il primo disco di Yiddish Music e grazie all’influenza del jazz di New Orleans, clarinettisti come Naftule Brandwein (Naftuli Brandwine) o Dave Tarras (David Itsy Tarasyuk) sarebbero venuti alla ribalta. Che una canzone yiddish come “Bei Mir Bistu Sheyn” passasse dall’intrattenere un pubblico ebraico in vacanza, ai cabaret di tutta Europa, grazie a Benny Goodman. Una serie di vicende stupefacenti che avranno un nuovo revival esteso negli anni ‘80 del secolo scorso, al punto che un disco del violinista Itzhak Perlman finirà per vendere migliaia di copie al pari di una hit di rock music. John Zorn nel decennio seguente inventerà dal nulla una sublime fusione tra armolodia ornettiana e klezmer ebraico e i giornali americani alla fine titoleranno: “I Klezmatics non sono solo la migliore band dell'avanguardia klezmer ma possono essere annoverati tra i più grandi gruppi del pianeta". E l’ironia proseguirà poiché da quell’ondata aschenazita proveniente dall’Europa dell’est, il linguaggio yiddish, benché indubbiamente coltivato nelle strade, si è respirato sempre più anche negli ambienti universitari e accademici, soprattutto da parte di non-ebrei. L’interesse per il suo studio è perennemente in aumento e ci sono occasioni musicali europee come il Jewish Culture Festival di Cracovia, dove essi rappresentano il 90% del pubblico partecipante. Concerti vengono organizzati pure in svariate città di tutto il continente asiatico, la musica è continuamente reinventata e rivitalizzata soprattutto da gente che non ha contatti particolari con le sue origini, tantomeno con la sua religione. 

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