Un bell’articolo de la Repubblica del 29 dicembre scorso titolava “Napoli, il Capodanno parte dalla periferia”, per poi dettagliare il programma di un evento che, quella stessa sera, avrebbe visto convergere, sul palco del PalaVesuvio di Ponticelli, diversi artisti della scena napoletana (tra cui Beppe Barra, Francesco Di Bella, Flo, Enzo Grananiello, Maldestro, Barbara Buonaiuto), protagonisti dello spettacolo “Napoli canta. La musica napoletana tra radici e futuro”, e il leggendario Gruppo Operaio ‘e Zezi di Pomigliano d’Arco. L’occasione del concerto/spettacolo, che si inseriva negli eventi organizzati per il Capodanno napoletano, ha coinciso con le iniziative che vedono impegnati gli ‘e Zézi nelle celebrazioni dei cinquanta anni di attività. L’evento – sebbene non esclusivamente dedicato all’ensemble pomiglianese – aveva tutti i connotati di una celebrazione necessaria e, in buona parte, calata a pennello su una storia estremamente porosa, assorbente: (come diceva l’articolo) la periferia, che è l’elemento più rappresentativo de ‘e Zézi (nati, cresciuti e pasciuti a Pomigliano d’Arco, dentro e fuori gli stabilimenti industriali dell’area),
l’atmosfera generale di una festa – o meglio di un presidio, l’ennesimo – fuori da ogni retorica che potesse ricondurre il gruppo ai simboli stilizzati della napoletanità, l’assetto generale de ‘e Zézi, con la loro immagine di gruppo “sfocato” (un po’ musicale, un po’ teatrale, un po’ tradizionale, un po’ anti-tradizionale, un po’ “da corteo”, da scorribanda, pienamente disfunzionale), il linguaggio astruso che propone (diretto e volutamente arcaico) attraverso una presenza scenica che ha – ancora oggi e forse più di cinquant’anni fa – la forma e la “funzione” di una spina in un piede. A ben vedere, questi cinquant’anni sono passati nella piena aderenza a principi di base, da cui Angelo De Falco – fondatore e coordinatore dell’ensemble – non intende allontanarsi neanche di un passo. E con lui – in varie forme e traiettorie – i componenti del gruppo (transitati per più o meno tempo a centinaia dal 1974) incamerano quell’immagine e quella pratica dell’urlatore di strada, del controcanto che stona, del ritmo ossessionato dal rumore e dalla sequela martellante del suono delle tammorre, del sostegno pieno e vigoroso di basso e batteria, delle parole
arrovellate nella lingua contro-politica, sporca come i racconti che racconta, storta come gli andamenti che incorpora. Dentro gli ‘e Zézi sono passati (ripetiamo, in modi e con prospettive differenti e, anche, in “epoche” diverse) grandi musicisti e artisti (da Daniele Sepe fino agli scampoli degli Almamegretta), ma soprattutto (e questo diviene, oggi che abbiamo una prospettiva storica, un importante paradigma dell’assetto del gruppo) si riconoscono soggetti e dinamiche che compongono un mondo che in altri contesti non è stato raccontato e rappresentato con tanta efficacia: certamente la fabbrica (pensiamo alle mimiche che Marcello Colasurdo e compagni facevano del lavoro alla catena di montaggio durante i primi spettacoli, o alla resa plastica delle condizioni degli operai attraverso i testi di alcune canzoni, o alla rappresentazione cantate della malaciorta, a partire dallo scandalo delle mazzette per le assunzioni in fabbrica), ma più in generale il grande cono d’ombra entro cui si sono perse le politiche sociali, la regolazione dell’accesso al lavoro, i programmi di organizzazione e gestione del benessere collettivo, dell’istruzione, della salute, la possibilità
di un lavoro che non alieni soltanto e che, nella politica di gestione delle risorse, si incastri organicamente in un tessuto culturale, storico e reale. Il passaggio nel gruppo di quelle centinaia di persone (che oggi sono idealmente rappresentate da musicisti navigati e teatranti a dir poco non convenzionali, coordinati, questi ultimi, da Bruno Senese) diviene, per questo, un elemento per comprendere la necessità di una forma di aggregazione come quella degli ‘e Zezi. Ecco, dopo infiniti tentativi di comprenderne la longevità (e, con essa, la forma, la tipologia), ‘e Zézi si rappresentano – senza la necessità di mediatori – attraverso sé stessi: loro sono la forma oblunga che la loro fisicità (presenza?) ha assunto in questi decenni. E il (semplice) mantenimento dello stato di emergenza, ha lasciato inalterata la capacità di guardare ai processi con disincanto: e di rappresentarli con il taglio netto di chi sa leggere e interpretare. Quello stato di emergenza – attenzione – non è una scusa o uno scudo per non entrare nel flusso del confronto e (ahimè) del compromesso. Non direi che questi “spazi” siano stati evitati dagli ‘e Zézi a prescindere: basti pensare – senza soffermarci,
vista la mancanza di spazio, sugli esiti, di cui si è dibattuto comunque a lungo, sia in termini politici che politico-culturali – alla vicenda (ormai al limite del leggendario) che li ha visti “opposti” alla Real World all’inizio degli anni Duemila. Quello stato di emergenza è divenuto il loro linguaggio, il loro assetto predominante, che li pungola e ricompone nel momento in cui prendono la parola. E che non solo hanno elaborato con naturalezza (politica?) ed evidente bravura, raffinandolo dentro la cesellatura dell’approccio ironico, ma hanno coraggiosamente evidenziato in tutta la loro vita. Allora, quella sera al PalaVesuvio una nutrita rappresentanza di questo giornale ha potuto assistere alla rappresentazione contemporanea di questa “posizione” storica degli ‘e Zézi di Pomigliano d’Arco. Fin dal primo momento in cui hanno calcato il palco – riallestito con una scenografia “zezianamente” celebrativa di cinquant’anni di storia – lo strappo (sicuramente non calcolato) con il set precedente non ha lasciato adito a dubbi. E buona parte dei paradigmi del gruppo sono stati rispettati: presenza piena anche se a margine di un flusso musicale più
condiviso ma piano, scorcio violento su un teatro diretto, vitale e irrituale, percorso a ritroso dentro i brani e i temi che li hanno resi famosi (“Vesuvio”, “Posa ‘e sorde” “’A Flobert” ecc.), mani in avanti a toccare la Napoli musicale che piace a loro – con Luca Persico, Pietra Montecorvino e Bisca che si sono alternati in performance indimenticabili – e, allo stesso modo, che è accorsa ad ascoltarli: fuori, in fondo, dal capodanno e, come si diceva, nella periferia. Aspettiamo trepidanti il nuovo album: è già stato registrato, sarà, a breve, pubblicato e, ovviamente, presentato in queste pagine.
Daniele Cestellini
Foto e video di Salvatore Esposito
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