Secondo capitolo dedicato ad artisti e gruppi svedesi che però non suonano musica locale.
Ripartiamo da dove si concludeva il precedente scritto
ovvero da un altro trio di Göteborg che suona musica dell’Europa dell’Est: i tre musicisti che compongo Tzeitel – Sara Fridholm (voce e fisarmonica), Anna Cochrane (violino e viola) e Christopher Andersson Bång (contrabbasso) – si sono incontrati mentre frequentavano l’Academy of Music And Drama della loro città e hanno cominciato a suonare insieme dopo aver scoperto una comune passione per la musica folk.
Tra le loro influenze citano la Cracow Klezmer Band, Astor Piazzolla, John Zorn & Masada String Trio e i favolosi Kroke; rispetto a quest’ultimi si propongono in pratica con lo stesso organico strumentale ma non si può dire posseggano lo stesso grado di originalità e creatività.
Tuttavia i Tzetel sono indubbiamente musicisti dotati sotto il profilo tecnico e non mancano certo di trasporto e ardore nelle loro interpretazioni di motivi della tradizione askenazita ma anche di nuovi brani originali composti dalla Fridholm o dalla Cochrane, sempre attraverso arrangiamenti pregevoli per quanto possa permettere il limite dell’organico.
“Drömfärden” è il terzo album del trio ed è quasi totalmente strumentale, con l’unica eccezione di una canzone, “Farväl Odessa”, unita a un altro motivo tradizionale, “A Lebedike Honge”. Non c’è niente che non si sia già sentito da decine di altri gruppi continentali e non che hanno scelto lo stesso repertorio ma i Tzeitel suonano magistralmente e piaceranno sicuramente ai cultori del klezmer.
Sempre a Göteborg hanno la loro base operativa i West Of Eden, in esistenza sin dal 1995 quando i due coniugi Schaub, gli unici membri fondatori rimasti nell’attuale organico, hanno dato vita alla band dopo un viaggio a Dublino.
In questi anni hanno seminato almeno una dozzina di album esibendosi non solo in patria ma anche in altri paesi europei, comprese Gran Bretagna e Irlanda, e persino in Cina.
Il gruppo ha sempre optato per un suono tipicamente folk-rock, con richiami a Fairport Convention e Jethro Tull, mescolando con cura strumenti acustici ed elettrici e avendo come punto di forza, oltre a una considerevole maestria tecnica, la bella voce di Jenny Schaub.
L’ispirazione ovviamente proviene soprattutto dalle lande celtiche ma anche dall’Inghilterra però i West Of Eden hanno sempre privilegiato materiale originale (i brani tradizionali da loro incisi si contano davvero sulle dita di una mano) e anche “quest’ultimo lavoro non fa eccezione o quasi. Whitechapel” è un album a concetto che racconta storie ambientate in quella che fu definita “la città dell’inferno”, ovvero la Londra del 1888, ed è dedicato in particolare alle donne che furono vittime di Jack lo Squartatore; una di loro, Kate Eddowes, è persino accreditata come autrice delle liriche di una canzone inclusa nel disco, “The Awful Execution of Charles Christopher Robinson”, l’unica a non portare le firme dei coniugi Shaub. I brani di “Whitechapel” sono tutti estremamente ariosi e affascinanti, con una grande varietà di atmosfere, temi melodici e arrangiamenti, grazie anche all’ampia strumentazione che comprende diversi strumenti a plettro, tastiere, violino, fisarmonica e tin whistle basso, contrabbasso, batteria e percussioni.
Se non bastasse in un paio di tracce, “Nothing” e “The Register of Shame” sfoggiano anche una sezione fiati che dà loro un sapore orchestrale e, come spesso avvenuto in passato, ci sono alcuni ospiti di rilievo come l’americano Ron Block e l’irlandese Damien O’Kane, entrambi al banjo, e lo scozzese John McCusker con violino, whistle e fisarmonica.
Tutto questo fa di “Whitechapel” un album in grado di tenere testa a tante produzioni originarie dei luoghi a cui si ispirano i West Of Eden che, non per caso, in passato sono stati definiti “il meglio del folk contemporaneo” da Irish Music Magazine.
Attraverso la “musica celtica” è passata anche Nina Åkerblom Nielsen con la sua opera prima, “Some Solitary Warden” del 2018, a cui tuttavia ha fatto seguito quattro anni più tardi “Tid”, vale a dire uno dei più bei dischi di folk svedese, come unanimemente acclamato dalla critica locale, pubblicati in tempi recenti.
Abituata a mutare pelle a ogni uscita discografica, con il suo terzo lavoro la cantante e pianista ha ripreso e messo in musica alcuni scritti della poetessa statunitense Emily Dickinson (a suo tempo già fonte d’ispirazione per l’Aaron Copland id “10 Poems By Emily Dickinson) registrando otto delicate canzoni che trattano di fede e dubbio, transitorietà e speranza eterna, solitudine e desiderio. Nina però non si è limitata a tradurre le poesie in canzoni ma ha pure cercato di ricreare, senza trascurare la contemporaneità, le atmosfere sonore dell’epoca in cui la Dickinson viveva e che ella stessa di certo ha conosciuto direttamente, come le musiche che lei suonava al pianoforte e all’organo, gli inni sacri e le canzoni popolari dei suoi domestici.
Il risultato è un disco che ha a tratti un tocco più americano, specialmente nelle tracce di apertura e chiusura, “Better Than Music” e “Nobody Knows This Little Rose”, ma la cui atmosfera generale non pare discostarsi di molto dal lavoro di altre colleghe cantautrici nordiche. Poiché nella sua non ancor lunghissima carriera la Nielsen ha anche composto ed eseguito musiche da chiesa e per coro (lo stesso che appare in questo disco), viene spontaneo chiedersi come sarà il suo prossimo appuntamento discografico anche se di certo sarà di alto livello artistico come tutto quel che ha fatto finora.
Massimo Ferro
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