Da sempre in viaggio tra le note popolari e pratiche musicali meticce, Camilla Barbarito ha una voce che conta e che sa cantare con credibilità in tante lingue diverse. Si è formata con il canto lirico e con la vocalità jazzistica, è pure donna di teatro e performer a tutto tondo. La curiosità verso le forme di tradizione orale e il canto della povera gente l’ha spinta a cucirsi addosso tante musiche del mondo. Insomma, è quel “sentimento popolare”, che dopo i primi due capitoli, l’eponimo esordio del 2018 e il volume 2 del 2020 qui si allarga, attribuendosi il titolo di “Cargo Sentimento Popolare d’assalto”, e prende forma incrociando la rotta con le due chitarre elettriche toste e affilate, belle e ispirate di Alberto N.A. Turra e Fabio Marconi (co-arrangiatore) e la batteria ariosa e di larghe vedute di Stefano Grasso. Ancora per Felmay, la cantante milanese pubblica il suo terzo lavoro discografico che appare più compatto eppure aperto nel suono, muovendosi sempre tra ampie campiture geografiche e sonore. Il nome dell’ensemble è il portato di un progetto che ha condotto Camilla a frequentazioni dei quartieri periferici della città di Milano, reso possibile dalla presenza delle cargo bike di Share Radio, una radio metropolitana dell’hinterland della metropoli lombarda. Si è generato un sound system eco-sostenibile che ha trasformato i cortili in libere zone sonore, all’insegna della musica come medium espressivo per promuovere incontri e relazioni tra persone di differenti culture. Si apprezzano i
sussulti sonori che attraverso le quindici tracce, a partire dal medley di apertura, che convoglia una canzone albanese che celebra il valore della parola data (“Besa Shqipatare” di Zef Beka). A questo segue il canto “Bas Avaie Vatanam” dell’iraniana Bollsamad Andalibi, rimando al desiderio di casa e della propria terra. La sequenza si conclude con la canzone “Si ‘na goccia” del molese Enzo del Re, poeta proletario mai allineato nell’arte come nella vita. Il secondo set accoglie gli umori saharawi di “Amandiath” di Khaira Arby (su cui si ascoltano field recording dai tragici giorni di Genova 2001), per poi virare verso tempi irregolari dell’Est Europa mettendo in serie quattro temi riconducibili alle culture rom (“Keckes” e “A Megfogom Az Ordogod” dall’Ungheria, “Tutti frutti” dalla Romania e “Duj Duj” dalla Cechia). Seguono “Lamento per la morte di Pasolini” di Giovanna Marini, per il quale la compositrice romana utilizzò i moduli di una “Passione” di tradizione orale. Affascina la magnifica alternanza di delicatezza un po’ sognante e di vivaci accelerazioni danzanti di “Al Solidom”, tema folklorico nella lingua che accomuna il sud della Galizia e il nord del Portogallo proveniente dal repertorio di Dulce
Pontes. Spicca ancora la rumba flamenco “Historia de Juan Castillo”, scritta da Juan Antonio Jimenez Mugnoz e José Torregrossa, portata al successo dagli spagnoli Los Chicos a metà anni Settanta del secolo scorso. È la storia di una banda formata da due fratelli e due cugini la cui azione finisce male per via di un tradimento. Juan, arrestato, lascia i figli in mezzo alla strada, supplicando la Vergine della Macarena di proteggerli. Spicca ancora la rumba flamenco “Historia de Juan Castillo”, scritta da Juan Antonio Jimenez Mugnoz e José Torregrossa, portata al successo dagli spagnoli Los Chicos a metà anni Settanta del secolo scorso, fa riferimento alla storia di una banda formata da due fratelli e due cugini la cui azione finisce male per via di un tradimento. Juan, arrestato, lascia i figli in mezzo alla strada, e supplica la Vergine della Macarena di proteggerli. In questo solo apparentemente disordinato peregrinare dei tre musici, si incontra ancora l’arte romanes nella saltellante “Dema Dae Mol Te Peau”. Si plana nell’ambiente noir che evoca storie di mala parigina con la chanson “Le Rififi” (firmata da Michel Philippe-Gérard e Jacques Larue, entrata in un film di Jules Dassin tratto da un romanzo di Le Breton). Ancora racconti di malavita nel tradizionale romano “Accusato di tradimento” (con citazione da “Quelle
come me” di Fiorenzo Carpi), che, sulla scorta degli scritti di Primo Moroni, legge le scelte extralegali come cosciente evasione dal percorso precostituito del lavoro in fabbrica, determinata dalla disillusione di chi aveva sperato che il secondo dopoguerra potesse condurre alla trasformazione sociale nel Belpaese. L’ultimo capitolo è il medley del padronato, dove si susseguono un canto alla zampogna di area laziale contro i padroni (dal repertorio canoro di Graziella di Prospero, arrivato via Bianca Jorona Giovannini) e un frammento di “Curre Curre Giagliò” dei 99 Posse, infarciti di colori subsahariani.
Fusione di diverse e potenti espressività che restituisce energia e groove, con carisma e qualità a guidare lo “sguardo deferente alle culture di matrice popolare e tradizionale”, senza cadere nei cliché del revival folk. Cantare, suonare e raccontare con sincerità e consapevolezza, sia politica che musicale.
Ciro De Rosa
Foto di Laila Pozzo
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