Camilla Barbarito si rimette in viaggio verso i lidi più antipodici della world music e lo fa con un giro del mondo a dir poco caleidoscopico, in quello che è il secondo capitolo del suo “Sentimento Popolare”. Tredici canzoni figlie del deserto subsahariano, bagnate dal Mediterraneo, sfiorate dal vento dei Balcani e baciate dal sole greco, che vanno a comporre un puzzle di colori, culture e tradizioni davvero invidiabile, figlio a sua volta di un lavoro certosino sulla vitalità della musica e delle sue radici.
La partenza, affidata a “Radura alta”, pezzo scritto dalla stessa Barbarito, è già una cartina tornasole dell’intero lavoro: dentro ci sono rimandi al canto dei salinai di Siracusa, quello utilizzato per scandire i tempi del lavoro, ma anche stralci di serenate calabresi, richiami all’highlife ghanese degli anni ’50 e, soprattutto, venature alla Tinariwen, con bassi vorticosi, percussioni ossessive e svisate impazzite di elettrica. “Soy Gitano” è un omaggio al mitico Camaròn e al suo flamenco permeato di tante altre suggestioni musicali. Il pezzo in questione, title track dell’album di flamenco più venduto della storia, poggia su una prova vocale incredibile, dal timbro graffiato e dal pathos teatrale. Una chitarra elettrica in levare sostiene la ritmica del brano, mentre dei notevoli contrappunti di flauto fanno da elemento di imprevedibilità. Altro brano, altra rivoluzione: stavolta sbarchiamo sulle coste greche, con un omaggio a Vasilis Tsitsanis, figura cardine del rebetiko, uno di quelli che ne rivoluzionò suoni e tematiche, allargandone il pubblico. Il brano scelto è la popolare canzone “Ximeroni ke vradiasi”, un accelerante hasaposerviko pieno di brezza marina nel quale fa da padrona una chitarra elettrica utilizzata in modo abbastanza singolare: da base ritmica del pezzo si trasforma in voce solista, inventandosi anche un fraseggio col wah degno di ogni attenzione. Altri elementi fondamentali per la dinamica del pezzo sono il clarinetto e la fisarmonica, follemente scintillanti nei loro deliri. Toni decisamente più ispanici fanno da sfondo a “Mala”, altro episodio del brano in cui a emergere è la bravura di Camilla nella teatralità interpretativa, sempre dai toni graffiati e molto coinvolgenti, quasi più ranchera che tanguera. Strepitosa, inoltre, tutta la sezione fiati (sax contralto, clarinetto basso e tromba), che aprono il pezzo, accompagnati da una chitarra elettrica santaniana utilizzata ancora una volta in modo decisamente notevole. A fare da sicuro punto di contatto con l’universo tanguero è la linea di basso, elastica ed avvolgente. “Satore” si apre con una introduzione di gaita, la cornamusa galiziana, ed è, probabilmente, il pezzo meno classificabile dell’intero album: è un canto della tradizione della comunità Rom dei pastori del Rajasthan, in India, ma il richiamo musicale a quelle terre arriva solo alla fine, con la coda strumentale che strizza l’occhio al Vietnam. Il brano poggia su un tappeto di gaita, colorata dai contrappunti del flauto, vero strumento solista del pezzo, mentre il rincorrersi costante della linea di basso e del pattern di batteria dà al pezzo un’andatura quasi sghemba, sulla quale ci si aspetta che da un momento all’altro si posi una chitarra in levare. “Yamore” è uno di quei pezzi che ha una identità così forte che lo potresti fare anche come gli Ska-P e non smetterebbe comunque di ricondurti all’Africa. In questo caso c’è una splendida notte maliana, con un filo di vento e tante stelle in cielo, che si trasforma in un’alba umida di rugiada, svegliata dal canto degli uccelli. Quando un pezzo riesce a farsi vedere così credo che qualsiasi commento tecnico sia superfluo. Però che meraviglia quelle percussioni lontane.
Dopo le suggestioni africane ritorna il graffiato ribelle e rabbioso. E non potrebbe essere altrimenti, dal momento che il pezzo in questione è “Canzone arrabbiata”, testo di Lina Wertmuller per musiche di Nino Rota. Uno scatenato ritmo in levare scandito dal rincorrersi di contrabbasso e banjo, con la chicca dell’accoppiata theremin- kazoo a fare da intermezzo musicale. Qualche tempo fa avevo scritto che chi usa il theremin con me gioca facile ed è promosso quasi di default. Bene, confermo tutto.
“Nora Luca” mette in campo tutta la duplicità della musica balcanica, capace di fare da sottofondo per i balli più scatenati e, contemporaneamente, di saper essere sanguinante e dolente, distrutta in mille macerie e malinconica. Qui bastano un arpeggio di chitarra ed una fisarmonica, sorretti da una prova vocale ed interpretativa di prim’ordine, a restituire la sofferenza di un genere che abbraccia perfettamente tutti i meravigliosi controsensi della sua gente. Altra vera e propria esperienza sonora da giramondo musicale è “La foresta musicale”, altro pezzo della stessa Barbarito. Timbri decisamente orientanti verso il mondo sonoro mediorientale, con una chitarra elettrica acidissima ad inventarsi riff e svisate, una linea di basso molto cupa ed un pattern di batteria, giocato in gran parte su rullante e piatti, secco ed arido come il deserto. Se la provenienza dell’impianto musicale è indubbia, lo stesso non si può dire del testo, che mette assieme siciliano, romanes e calabrese, sublimati dai vocalizzi finali. L’omaggio all’Endrigo di “Aria di neve” è, probabilmente, il passaggio più classicheggiante dell’intero lavoro: una gran bella rivisitazione sorretta dal pianoforte (che nel finale si lascia andare ad una coda strumentale meravigliosa), con un tappeto di chitarra elettrica fretless combinata ad un e-bow che dà al pezzo un’atmosfera tempestosa, a tratti disturbante.
Altro omaggio alla grande canzone d’autore nostrana è l’undicesima traccia dell’album, quel “Gli Uccelli” che è una delle tante summe dell’immaginifico immaginario di Franco Battiato. Qui ce ne viene proposta una versione molto dilatata, con gli interventi dell’elettronica che ben si incontrano ai fraseggi di violino e violoncello, che ricordano, nel loro stridere, i versi degli uccelli, in un volo altissimo, un rincorrersi fra le correnti ascensionali e le trame di un pezzo che, in questa versione, finisce di decollare.
Notevole la versione di “Lamento di un servo”, qui presentata con un vestito sonoro completamente nuovo, più vicino a nuance africane, complice l’incontro con Alyou Ndiaye, griot (una specie di bardo) senegalese. Come sempre una linea di basso marcatissima, quasi da Africa ’70, scandisce il pezzo. In tutta onestà la soluzione sonora scelta non mi ha fatto impazzire, nonostante l’idea di fondo fosse interessante. Mettiamola su questo piano, tento di spiegarmi: ha restituito pienamente l’idea di protesta in musica che, appunto, Fela Kuti, Manu Dibango, Tony Allen e compagni avevano in mente in Africa. Ma, dall’altro lato, ha tolto la componente di disagio propria del Sud Italia: noi siamo molto più sanguigni, più- mi si passi il termine- agguerriti, cantare la rabbia con un impianto musicale allegro non è esattamente il nostro primo pensiero, noi ci mettiamo l’ironia (Matteo Salvatore o quel geniale “hann’a finiri ‘sti vintinov’anni, unnici misi e vintinovi jorna” di Rosa Balistreri), non la gioia. Da quel punto di vista lì mi sembra un po’ una versione snaturata, ma l’idea di fondo è interessantissima, così come la resa finale ineccepibile.
Chiusa la polemica fra me ed il sottoscritto, chiudo anche il disco parlando dell’ultimo pezzo, “Notte fonda”, terzo brano scritto dalla Barbarito, che è un meraviglioso esperimento di incontro fra la voce densa e graffiata della stessa cantante, fra un violino disturbato ed un oscuro arpeggio di chitarra elettrica, in un pezzo che ha come resa finale quella di una atmosfera misteriosa, pacificante solo a tratti, rarefatta.
Come detto all’inizio, “Sentimento Popolare Vol.2” è davvero un giro del mondo in forma di canzoni, un lavoro densissimo, pieno di spunti sonori interessanti, dall’uso incredibile della chitarra elettrica, che raramente avrei pensato di poter trovare utilizzata così in un disco di word music, all’imprevedibilità dei fiati, per concludere con i tanti colori che escono dalle linee di basso e con le interpretazioni magistrali di Camilla. Un disco perfetto per cercare comunque il viaggio, anche in tempi di stasi obbligata. Decisamente da non perdere per chi ha orizzonti (musicali e non) larghi e non vuole smettere di allargarli!
Giuseppe Provenzano
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