The Joy – The Joy (Transgressive, 2024)

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Fra i meriti del produttore West Nkosi e della Gallo Records c’è la pubblicazione, a febbraio del 1973, del primo album di musica “nera” sudafricana capace di vendere oltre 25.000 copie, opera prima di un settetto vocale, i Ladysmith Black Mambazo, guidato da Joseph Shabalala, che da qualche anno aveva cominciato a farsi conoscere attraverso i concerti e la radio per poi diventare famoso nel mondo con “Graceland” (1986) e guadagnarsi cinque Grammy Award. Il brano che apriva e dava il titolo all’album era un omaggio a chi difende la comunità, ai “guerrieri” zulu, gli “Amabutho”. Quasi cinquant’anni dopo, una nuova versione di questo brano è stata proposta da The Joy nel 2021 per il loro EP “Amabutho”, con sei tracce, compreso il singolo “Isencane lengane”, che li aveva lanciati: un omaggio alla vocalità del gruppo di Joseph Shabalala e, al tempo stesso, un modo nuovo e arcaico di interpretare il canto zulu a cappella Isicathamiya intrecciandolo con un tipo più antico di tradizione vocale, il Mbube (leone). Originari di Hammarsdale, sobborgo di Durban, i The Joy si sono conosciuti da studenti e hanno partecipato insieme a concorsi per gruppi vocali, tradizione zulu del canto a cappella, quella che inizialmente aveva fatto la fortuna dei Ladysmith Black
Mambazo. Se cinquant’anni fa era comune dar vita ad un gruppo di una decina di persone e veicolare le proprie canzoni attraverso la radio, oggi è il passaparola di Instagram e TikTok a spingere formazioni più ridotte, come questo quintetto (oltre 600.000 ore di streaming Spotify in 183 Paesi nel 2023) con Pastor (Ntokozo Bright Magcaba), Guduza (Sphelele Hlophe), Sthombe (Phelelani Sithole), Marcus (Sanele Ngcobo) e Duzie (Melokuhle Mkhungo). Soprattutto quando è quest’ultimo a guidare il canto l’energia del lignaggio Mbube diviene più evidente e introduce un elemento di novità, la coesistenza di più voci che guidano all’interno dello stesso brano. Una seconda influenza è il canto a cappella in area gospel del 2002, the Soweto Gospel Choir di David Mulovhedzi e Beverly Bryer (nel 2007 il loro album “Blessed” vinse il Grammy per Best Traditional World Music Album). In questo ambito i The Joy si rifanno esplicitamente al quartetto The Soil e ai loro quattro lavori discografici fra il 2011 e il 2024, con l’ultimo lavoro, “Reimagined” pubblicato in trio (da Luphindo Ngxanga, Ntsika
Ngxanga e Theo Matshoba). The Joy hanno registrato le loro voci per le tracce del loro album nei Church Studios di Crouch End, a Londra, dal vivo, senza alcun altro strumento o uso di sovraincisioni. Le undici canzoni hanno una durata fra i due e i cinque minuti e, pur rispondendo tutte al canone “chiamata della voce solista e risposta del coro”, hanno ciascuna un proprio carattere e arrangiamento specifico rendendo avvincente il percorso di ascolto lungo tutto l’album anche per chi non capisce i testi che vengono cantati. Pur opera prima, l’album mostra spessore, accuratezza, maturità compositiva e esecutiva: “Siamo cresciuti quanto a comprensione, creazione e messaggi che vogliamo veicolare con la musica. Il nostro viaggio ci ha fatto uscire dalla nostra zona di comfort per imparare a scrivere incorporando diversi temi ed elementi. Quando cantiamo, le persone di fronte a noi vengono investite dalla gioia. Questo è quel che vogliamo essere, veicoli di gioia per chi ci ascolta”. Saranno di nuovo in Europa a settembre, anche per celebrare i vent’anni della Transgressive il 19 al teatro Apollo di Londra. 


Alessio Surian

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