Ben Glover – And the Sun Breaks Through the Sky (Appaloosa/I.R.D., 2024)

Classe 1978, nordirlandese trasferito a Nashville, voce profonda con soluzioni melodiche infinite, approccio morbido e ispirazione praticamente illimitata (da un album ogni anno o al massimo ogni due come solista, ma soprattutto da hits da Grammy, scritte in tutti i generi e per ogni genere di artista), Ben Glove ci regala un racconto catartico, nato nel nefasto 2020 e maturato negli ultimi quattro anni. Maturato fino a quando i brani sono divenuti una vera e propria famiglia - così ci dice Ben - pronta ad affacciarsi alla vita: senza paura, forte del sapore unico dell’avventura, dell’orizzonte che si intravvede e che sta lì pronto a ingoiare chi lo sogna, chi lo anela e lo avvicina. “And the Sun Breaks Through the Sky” raccoglie nove canzoni che riflettono proprio un percorso, una traiettoria, uno spazio sospeso che trasuda urgenze, parole da cantare, corde da sfregare, con candore, calore, grazia (e tanto mestiere). Uno spazio personale quanto collettivo, trasversale, in cui tutto si incastra alla perfezione. In cui ogni nota e ogni parola sembrano essere scritte per quelle che le precedono e che le seguo. In cui ogni suono sembra insostituibile. Tutto ha il sapore irresistibile dell’inevitabile, dell’inesorabile, sebbene sia trafitto da una gradualità evidente, da una chiara ponderazione. Appunto gradualmente ma inesorabilmente, anche al primo ascolto si viene rapiti, stretti da suoni puri e calibrati, da melodie che riconducono a un elemento unico, insopprimibile e irresistibile (provare per credere “One five day”, la più bella in scaletta): la voce che racchiude gli sguardi di questo cantautore e autore a dir poco prolifico - la voce che articola parole su parole, immagini su immagini, flessioni delicate e fluide da rabbrividire anche il meno malinconico degli ascoltatori - e, con essa, quei pochissimi strumenti che, nel loro insieme semplice e primordiale, rinnovano senza sosta il corpo elastico della musica angloamericana, di matrice folk, di stampo blues, di vena gospel. Insomma, a ogni angolo appaiono visioni tratteggiate di tutto ciò che i melanconici tengono stretto ai loro cuori: voci armonizzate in melodie brevi e dolcemente impetuose, naturalissime da strapparsi le orecchie, una chitarra acustica di supporto ma imprescindibile, batteria ferma ma dinamicissima, con suoni chiusi - che afferrano i piedi e tirano giù - e le chitarre elettriche (con incursioni di slide) che strattonano energicamente, diffondendo in tutto l’album un andamento insicuro, irregolare ma rassicurante e improvvido, mai inquieto o serioso. Quando la chitarra acustica si sofferma su frasi melodiche più articolate, invece della ritmica, si prova quel fremito che ci avvicina al pianto felice: in “Break for you” questo andamento più armonico è affiancato da un banjo centellinato e ipnotico, quai imaginato, che si sofferma, da una dimensione legnosa e delicata, sugli accenti delle parole, abbattendo per sempre la resistenza a un ascolto totale, vertiginoso. Abbiamo anche alcuni esempi di pianoforte triste, contemplativo, che lasciano uno spazio eterno alla voce di Glover, quando canta la migliore delle chiose con “Till I see you again”. Ad accompagnarlo musicisti di grande fiducia e maestria comprovata: Mary Gauthier, Gretchen Peters, Kim Richey, Neilson Hubbard. 


Daniele Cestellini

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