Koum Tara – Baraaim El-Louz (Odradek Records, 2023)

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“Baraaim El-Louz” è tante cose, è chaâbi come non lo avete mai sentito prima, è una tessitura impeccabile di sonorità, strutture, impressioni e movimenti, è un disco costruito abilmente, che bilancia dinamiche, ritmi e melodie in un prodotto coerente e ricco. Il supergruppo di franco-algerini di Lione è ideato e diretto dal pianista Karim Maurice, ma trae grande ispirazione dalle figure del passato. Sia il nome della band, “Koum Tara”, che il titolo dell’album, “Baraaim El-Louz”, sono i titoli di poesie del poeta algerino Mohamed Bendebbah vissuto nel XVIII secolo. E se alcuni dei pezzi sono arricchiti da composizioni originali, sia musicali che testuali, da Maurice e del cantante Hamidou (Mohamed Hamam), altri esplorano le radici del genere algerino, reinterpretando testi e melodie di pilastri del genere come Mahboub Bati, Dahmane El Harrachi e Mohamed El Badji. “Koum Tara” mescola tre mondi, quello del chaâbi (che a dirla tutta si estende ad altri generi maghrebini e alla music arabo-andalusa), la musica da camera ed il jazz, abilmente intrecciati smussando gli spigoli di ognuno per facilitarne l’incastro, ma senza eroderne l’essenza. Il gruppo stesso può essere quindi diviso in tre categorie, seppur porose. A capitanare l’ensemble troviamo la voce di Hamidou, che in aggiunta suona mandola, banjo, darbouka e bendir; a supportarla abbiamo la sezione ritmica capitanata da Maurice al piano e alle tastiere, seguito da Brice Berrerd al contrabbasso e Kamal Mazouni alle percussioni – di cui il cajon e la darbouka sono le più prominenti; e ad espandere il nucleo ci sono i membri del quartetto d’archi “La Camerata”, Gaël Rassaert e Mathieu Schmaltz ai violini, Clément Sozanski alla viola, e Amandine Lefèvre al violoncello. 
Il risultato è un chaâbi leggero ed orchestrato, diverso da altre reinterpretazioni fusion come quelle di Karim Ziad in “Ifrikya” in cui prevalgono rapidi e densi intrecci ritmici. Anzi, in “Koum Tara” lo scheletro ritmico del chaâbi - complesso da percepire correttamente per l’orecchio occidentale abituato a sottolineare il downbeat – non è enfatizzato, è parte organica di un tutto. È sicuramente complice la scelta di strumenti dalle sonorità più delicate, in particolare cajon e contrabbasso, che lasciano più spazio alle armonizzazioni degli archi, al piano e alla voce. L’anima jazz del progetto, invece, siede nell’armonia, negli scambi e nell’improvvisazione, ma esattamente come gli altri due elementi non eccede soffocando il resto. “Kifech Nensa”, brano in apertura, esemplifica perfettamente quanto descritto. I tre generi danzano con grande equilibrio creando un pezzo leggero, spensierato e quasi scherzoso anche nelle sezioni non cantate, a differenza dell’originale di Dahmane El Harrachi. Continuando coi tributi non si può non menzionare “Khayef Allah” di Mahboub Bati, dove l’interazione tra piano ed archi, seguiti poi dalle percussioni nella prima metà ricordano molto il jazz orchestrale del passato, che poi lascia spazio ad una struttura più nordafricana. “Wach Aadabni”, sempre di Bati, è un'altra fantastica reinterpretazione, più ballerina, più moderna, in parte per l’utilizzo, seppur morigerato, di sintetizzatori, e i ritmi più serrati e danzerecci. Sono tuttavia i brani originali a colpire di più, gli artisti sanno chiaramente quello che stanno facendo ed eccellono ancora di più quando si prendono
i dovuti spazi. “Corona Chetana” è più vicino a certe interpretazioni fusion del chaâbi. Un fantastico utilizzo dell’armonia e delle dinamiche costruisce un’emozionante architettura d’intensità, ulteriormente sottolineata dalla non-linearità della struttura ritmica del chaâbi, stavolta veementemente sottolineata dalla sezione ritmica. “Cheh Ya Qalbi”, infine, è più vicino alla produzione di jazz mediterraneo degli ultimi vent’anni nel movimento, nell’utilizzo degli accordi e nella divisione di spazi e ruoli tra strumenti. Il brano si sviluppa in maniera incrementale, aggiungendo dettagli che sbocciano in un climatico solo di tastiere che precede il ritorno al tema principale. “Baaraim El-Louz” è un disco estremamente versatile e soddisfacente che bilancia impeccabilmente chaâbi, jazz e musica da camera creando un sound unico e innovativo. Per la sua coerente poliedricità può assecondare ascoltatori da bacini stilistici differenti disposti a provare qualcosa di nuovo. In questo senso “Baaraim El-Louz” si avvicina ad altre novità della scena world fusion degli ultimi anni come “Where is Home (Hae Ke Kae)” di Abel Selaocoe o “When the Waves” di Terez Sliman, che nonostante i diversi gradi di successo internazionale riscontrato riescono nello stesso intento di comunicazione stilistica e culturale. Il disco è inoltre un fantastico sequel al titolo di debutto del 2018, di cui mantiene le basi ma migliora grandemente gli arrangiamenti. Vista la crescita esponenziale tra primo e secondo album, le aspettative per il futuro di Koum Tara sono altissime. 


Edoardo Marcarini

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