Classica Orchestra Afrobeat – Circles (Brutture Moderne, 2023)

“Circles” è il titolo del quarto lavoro della Classica Orchestra Afrobeat, uscito, con la produzione artistica di Andrea Scardovi, per l’etichetta Brutture Moderne (e magari fossero tutte così). Si tratta di un ensemble di quattordici musicisti, diretto da Marco Zanotti, di varia provenienza musicale (classica, barocca, tradizionale, jazz-rock) e offre brani con una suggestiva contaminazione musicale tra passato e presente e tra Nord e Sud del mondo; tra melodie tonali e ritmi pari occidentali e pentafonie e poliritmie africane. Non poteva esserci titolo più appropriato, traducibile come ‘circoli’ o anche ‘cicli’, un termine insieme straordinario ed essenziale. I cicli naturali, circadiani e delle stagioni, si oppongono alla inesorabile linearità distruttiva dei prodotti dell’industria chimica. Il cerchio, l’eterno ritorno, il loop diremmo oggi, è invece la salvifica condizione che conduce a una esperienza umana di continua ripetizione. Ecco che allora la figura geometrica del cerchio ritorna nelle danze e nei riti delle popolazioni africane, come dei nativi australiani o della tarantella calabrese dove il circolo è chiamato ‘a rota’. Ma il ciclo è anche il sistema ritmico-melodico nella musica dell’Africa subsahariana, di tipo ‘additivo e non ‘divisivo’. Gli strumenti ‘primari’ africani (nel senso di autocostruiti e non industriali) come la mbira o il djembe, usati da questa orchestra li troviamo quasi sempre in funzione di ostinati, basati sull’essenzialità delle scale pentatoniche che non obbligano a nessuna ‘risoluzione’ come nel sistema tonale, quindi aprono a una circolarità. Il ciclo è anche alla base degli strumenti della tradizione ‘classica’ selezionati per l’orchestra. Si tratta infatti di strumenti della prima ora del barocco (il clavicembalo, la viola da gamba, il violino, il flauto, l’oboe, il fagotto), ovvero di quando la musica si sviluppava dalla ripetitività ciclica di forme come la ‘passacaglia’ o la ‘follia’. A completare l’organico sono inseriti la batteria e il basso acustico che eseguono, con gli strumenti africani, riff su cui si snodano le improvvisazioni del sax o del flauto. Inoltre la parola ciclo chiama in causa quella di ri-ciclo poiché, negli spettacoli dal vivo dell’Orchestra, si usano gli abiti di scena di Giovanna Caputi, fatti da stoffa grezza, corde e materiale riciclato, appunto, mentre, Marcello Detti ha realizzato una serie di gioielli con pezzi di vecchi strumenti musicali in ottone, inventando nuove geometrie circolari. A fargli da contraltare c’è la foto di copertina dell'album, realizzata da Luca Perugini: un sorprendente scatto effettuato dal basso verso l'alto di una torre di raffreddamento in disuso, alla ex-Sarom di Ravenna. Ospite d'onore dell'album è una delle maggiori intrepreti della musica maliana contemporanea, Rokia Taoré, che ha composto insieme a Zanotti il brano “Ka munu munu”, tradotto significa tutto gira, ovvero ancora l’dea ciclica. Il primo brano è “L’origine del mondo”. Dopo una lunga improvvisazione sulla scala pentatonica di La della sanza, fanno irruzione le percussioni (è l’arrivo del Bing-Bang?) Lo strumento poi passa a un ostinato misurato che dialoga con le percussioni e a cui si aggiunge il basso con un altro riff melodico. Segue un momento di silenzio in cui e poi entrano classicamente il violino, il flauto, il fagotto sfociando in un’atmosfera progressive in cui la complessità è data dalla somma di ogni elemento ostinato e si crea così una gradevole poliritmia. “But first” parte con un riff del basso, poi entrano le percussioni e un tappeto sonoro come sfondo da cui emerge la figura dell’oboe e poi degli altri strumenti; un momento centrale è l’assolo della batteria che, con gli accordi staccati degli altri strumenti, segna una digressione prima di riprendere l’ostinato che sfocia in momento di free-jazz, seguito da un interplay tra tutti gli strumenti. In “Ka munu munu”, dopo un’introduzione ‘da camera’ entrano la sezione ritmica e la bellissima voce della grande Rokia Traoré, con una song dalla tipica struttura chorus-bridge. “Nhemanomusasos” è introdotta da un’improvvisazione della sanza contrappuntata poi da strumenti classici che contrastano melodicamente sul tappeto ostinato degli strumenti africani e creano un’atmosfera poliritmica che, strizzando l’occhiolino al gnawa, infonde serenità ed equilibrio, “Kunta Kinte” (personaggio di ‘Radici’, mandingo catturato in un villaggio dell’odierna Gambia e trasportato oltreoceano per essere, venduto a un proprietario terriero della Virginia) entra con un tema ciclico fugato. Viene poi sovrastato ma non cancellato dall’entrata in 4 della sezione ritmica. Atmosfera barocca data dei trilli e dagli arpeggi del clavicembalo e dal timbro di alcuni strumenti come l’oboe e il fagotto, il tutto incorniciato in un groove pop-rock. “People and spirits” ha un sound corporale, tutto da ballare che convive con gli interventi ‘metafisici’ degli strumenti, è infatti un disco da ascoltare con il corpo, la testa e il cuore. Su un ostinato tribale di gnawa un’improvvisazione jazz, non mediato, quello della prima ora, di prima che i neri lo portassero in America, arrivando alle sue radici. In “Debra Libanos” troviamo un ciclo ritmico di 9/4 in 5+4, con atmosfere da quartetto d'archi romantico, “Penelope” diventa la metafora dell'attesa paziente di un mondo migliore e l’ultimo brano, “Until the day light”, con la sua iniziale poliritmia induce a essere in armonia con lo spirito della luce. Un lavoro che vale davvero la pena di ascoltare e possibilmente andare a vedere dal vivo. 


Francesco Stumpo

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