Peppe Voltarelli – La grande corsa verso Lupionòpolis (Visage Music, 2023)

Cantautore dalla visione eclettica 
e in grado di muoversi attraverso stili e ambiti musicali differenti, Peppe Voltarelli è un poeta punk, un artista anarchico con le radici ben piantate nella sua Calabria, ma continuamente in giro a calcare i palchi di tutto il mondo dalla Francia alla Germania, dal Belgio all’Argentina per giungere al Canada e agli Stati Uniti. Proprio a New York e, precisamente, a Manhattan ha preso vita il suo nuovo album “La grande corsa verso Lupionòpolis” nel quale ha raccolto dieci brani inediti nel quale si intrecciano storie, riflessioni personali e schegge di ricordi, avvolte da arrangiamenti che spaziano dalla roots music americana al tango argentino, per toccare il folk e i ritmi latin. Abbiamo intervistato il cantautore calabrese per farci raccontare la genesi e le ispirazioni alla base di questo nuovo lavoro dal respiro internazionale.

Un tuo disco di brani inediti mancava dal 2014, anno di uscita di "Lamentarsi come ipotesi". Un tempo lungo ma durante il quale hai, però, dato alle stampe "Voltarelli canta Profazio" con cui rendevi omaggio al repertorio del cuntastorie calabrese recentemente scomparso e il magnifico disco di duetti "Planetario" nel 2021. Com'è nato "La grande corsa verso Lupionopolis"?
Avevo grande desiderio di tornare a scrivere canzoni in dialetto penso che sia una lingua viva ma volevo confrontarmi con un universo sonoro diverso da quello sperimentato negli ultimi miei lavori sia
sostanziale che metodologico ad esempio suonare insieme in studio aggiungendo pochissime cose in post produzione e dopo molti anni di concerti e spettacoli in solitaria tornare a pensare a più teste sin dalla fase di scrittura Quindi New York il produttore Simone Giuliani la band la sporcizia sonora.

Nel titolo è racchiuso il filo conduttore del disco. Il viaggio, la corsa. Quali sono state le ispirazioni alla base di questo nuovo disco?
Se nasci in provincia la fuga è essenziale nutritiva entusiasmante ho cominciato nel 1986 la fuga è necessaria per dare voce e corpo all'irrequietezza accumulata nell'infanzia e in ultimo per ragionare meglio sulla provincia e sul suo aspettare. Nel caso di Lupionopolis il mio destino è legato a New York City per diverse ragioni: in primis per il film "La vera leggenda di Tony Vilar" che mi ha permesso di muovermi sulle rotte degli italiani d'America, memoria storica della nostra comunità globale e in secondo luogo la centralità nelle mappe del panorama artistico universale hanno fomentato il desiderio di confrontarmi con il suono di questa città la corsa appunto la rapidità la congestione il ritmo.

Cosa rappresenta "Lupionopolis", un approdo, una città immaginaria...?
Lupionopolis è un piccolo paese del Paranà in Brasile dove c'è un supermercato che porta il mio cognome un luogo per sparire per rinascere per ricominciare per sperare.

Ci puoi raccontare la genesi del disco?
Nel 2015 ho fatto un concerto in un club di Bleecker Street nominato Subculture e li ho conosciuto Simone Giuliani pianista e producer fiorentino a quel tempo basato a New York con lui è nata una bellissima amicizia. Abbiamo fatto alcuni spettacoli insieme in Italia, poi lui ha realizzato il remix di una mia canzone, “Scarpe rosse impolverate”, pubblicato da una label americana di nome Adesso Allora e che è andata molto bene nel circuito dell'Electro Swing. Abbiamo cominciato a fantasticare sull'idea di un disco fatto a New York City. Abbiamo individuato lo studio East Side Sound Studio del grande Marc Urselli (anche lui era al mio concerto al Subculture) e poi Simone ha arrangiato tutte le canzoni e formato la band che è entrata con noi in studio a febbraio di questo anno.

Come hai deciso di andarlo a registrare negli Stati Uniti?
Era un desiderio covato per molti anni ho passato dei lunghi periodi a New York City con residenze artistiche in club della città che mi hanno fatto scoprire ed amare la sua congestione urbana il suo linguaggio i suoi abitanti le sue difficoltà.

Quanto è stato importante il contributo di Simone Giuliani e Marc Urselli? 
Il disco e stato prodotto artisticamente da Simone Giuliani che ha scritto gli arrangiamenti delle canzoni e le orchestrazioni. Marc Urselli è stato fondamentale in studio perché la sua esperienza e la sua bravura ci
ha messo nelle condizioni di lavorare al massimo delle possibilità. Lui, poi, è molto amico di Simone e conosceva anche alcuni dei musicisti che hanno lavorato al disco quindi si è stabilito subito un clima di grande empatia lo studio è bellissimo e molto accogliente. Ci siamo trovati benissimo.

Cosa si prova a registrare a Manhattan?
Arrivare in studio da Queens ogni mattina era un rito che mi faceva sentire bene. Prendevo la forza di tutti quelli che incontravo per strada gli sguardi e i complimenti per il mio cappotto rosso del casentino. Poi, il saluto alla signora che stava all'uscita della metro che ogni mattina mi diceva "Come on Pepe, today it’s the day”. Quando entravo in studio e traducevo dal calabrese in italiano i testi dei pezzi e poi con Simone dall'italiano in inglese, sentivo una grande responsabilità ma sono abituato a giocare in trasferta.

Come si è indirizzato il lavoro in fase di arrangiamento dei brani?
Abbiamo scelto una band essenziale fatta di piano percussioni batteria contrabbasso e chitarra elettrica. Io facevo l'acustica, Simone ha dato indicazioni ai musicisti sull'idea di massima di un suono scarno essenziale, una specie di blues mediterraneo, post-Jonico nelle canzoni dove si trovava anche un po’ di ironia. Le orchestrazioni le abbiamo provate in un concerto fatto a Brooklyn al Lunatico Bar due giorni
prima di entrare in studio. Sembrava che tutto funzionasse al meglio. Simone diceva manteniamo lo sporco del nostro suonare perché questo avrebbe dato corpo e giustizia alla mia voce al mio cantare, meglio di qualsiasi artifizio. Alla fine, è stato proprio così.

Quanto ha inciso nella definizione del sound il contributo dei vari strumentisti che ti hanno accompagnato in studio?
E' stato determinante ad esempio Mauro Refosco (percussioni) e Stephane San Juan (batteria) e Devin Hoff (Contrabbasso) con i loro incastri hanno dato vita ad una ritmica sempre interessante e piena di sfumature diverse anche a livello di spettro sonoro, sulla quale le chitarre elettriche di Jake Owen e i solisti come Eleanor Norton (Violoncello) e Doug Wieselman (Sax e Clarinetto) si muovevano in modo molto naturale. Simone secondo me ha creato per ogni brano un ambiente ideale dove ogni musicista aveva la sua collocazione perfetta.

Come si è evoluta la tua ricerca compositiva in questi anni con riferimento all'uso del calabrese? In questo senso, quanto è stato importante il lavoro sull'opera di Otello Profazio?
Dopo il mio incontro con Otello Profazio, ho idealmente pagato il conto col mio passato. Successivamente, ho incontrato Ferrè Brel e Vladimir Semënovič Vysockij e il mio canto si è incastrato nella terra e in seguito è evaporato. La lingua è rimasta, ma quello che mi ha dato l'incontro con questi
artisti è stato emotivo: un fatto di sicurezza, il coraggio di capire quando e come alzare, spostare, virare, tagliare, sussurrare e urlare.

Tra i brani più intensi del disco c'è "Mareniro" in cui racconti la condizione di chi lascia la propria terra per cercare fortuna altrove. Come nasce questo brano?
La mia famiglia ha una casa sulla spiaggia a Mirto dove sono cresciuto. Quel mare mi ha sempre fatto un po’ paura perché è molto profondo già a pochi metri dalla riva. L’ho sempre guardato con rispetto e timore. Penso che per quelli che arrivano da lontano la mia terra debba essere già la loro terra e una canzone deve avere la forza e il dovere di raccontarlo. E’ per questo motivo che è nata questa canzone.

Qual è stata l'ispirazione da cui ha preso vita "Fiore"?
“Fiore” è la potenza della natura la sua grandezza che si manifesta nella fragilità di un fiore come un amore da proteggere un opinione.

In "Marinai perduti" fa capolino un eco di tango argentino. Quanto è stata importante la tua esperienza in Argentina, ci sono connessioni con questo brano?
“Marinari perduti”, l'ho scritta a New York City gli ultimi giorni in studio. Era per me la conclusione
ideale del progetto, dedicato ai porti del nord che ha dato poi origine a “Planetario”. L'Argentina è sempre nel mio cuore come una smorfia, un sorriso, un dribbling maledetto, la voce di Roberto Gocheneche, il ghigno di Cacho Castana, una milonga a fine serata con Mincho Garrammone, un concerto di Nicola di Bari al Coliseo con quattro bis di "Prendi questa mano zingara". Storie senza finale.

Come si inserisce questo disco nel tuo repertorio?
Penso che sia un bel punto di partenza per altre mille nuove incredibili avventure.

Concludendo, come si evolvono questi nuovi brani sul palco?
A seconda di dove mi trovo ogni sera cambio tutto comprese le storie che introducono i brani sembra sempre una cosa scritta due ore prima: è fantastico. Collaboro con tanti musicisti e con nessuno di loro faccio le prove e succedono sempre cose diverse, errori fantastici e memorabili.


Salvatore Esposito

Peppe Voltarelli – La grande corsa verso Lupionòpolis (Visage Music, 2023)

C’è sempre un’allure da Magna Grecia, nel raccontare di Peppe Voltarelli e dei suoi lavori. Sarà l’aria della Sibaritide, o quel suo fascino tutto salsedine& brezza marina. O sarà perché, molto più semplicemente, Voltarelli è l’ultimo degli Argonauti, donchisciottesco cercatore dell’inaudibile e geniale (ri) scopritore di terre lontane o, chissà, inesistenti: col suo ultimo album di inediti (foriero, fra le altre cose, della prima delle sue tre Targhe Tenco), la bellezza di tredici anni fa, ci aveva fatto passare la notte a Malà Strana, nel cuore di Praga. Adesso ce lo ritroviamo da guida (seguito, fra l’altro, dall’ottima compagnia dei vari Simone Giuliani a pianoforte e produzione, Mauro Refosco alle percussioni, Stephane San Juan alla batteria, Devin Hoff al contrabasso, Jake Owen alla chitarra, Doug Wieselman a sassofono e clarinetto, Eleanor Norton al violoncello, Ami Denio, Alexia Bomtempo e Francesca Magnani alle voci, il tutto registrato da Marc Urselli)  in una rincorsa al Nuovo Mondo che parte da Lupionòpolis, fra le viscere del Brasile, e arriva fino in “Canadà”. D’altro canto, quello di Peppe è un immaginario denso di partenze e addii, figlio inscindibile della sua terra e del suo vissuto. Disco aperto da una “Mare niro” (“Mare niro funno chi fa paura/ C’è ancora troppa gente abbannunata e sula/ sula dintra a notte mai appaciata/i senti si rumori i ricanusci sti gridate”) che si adagia tra l’arpeggiare della chitarra acustica ed i fraseggi acquosi del pianoforte, pronti ad accogliere i contrappunti ventosi del sassofono ed il crescendo dinamico del ritornello. A seguire, le trame agrodolci di “Nun signu sulu mai” (“Sti parole nun su petre scritte all’aria mmenzo u cielo/ su bannere all’irta si in stanno/ sti parole su potenti ad una ad una quanno i senti/ nun su lacrime ne chianti”), scandite dal levare terroso della sezione ritmica e squarciate dalle incursioni del clarinetto e della chitarra elettrica. “Au cinema” (“Signo pur’io ca guardo u munn nfaccia/ e nun mi spagno mai e rinascere/ signo sule io ca tegno a capa frisca/ e voglio sulu u cinema”) cammina lungo uno sghembo andamento jazzato, elettrizzato dalle svisate della chitarra e dagli svolazzi camosciati del clarinetto. “Spremuta di limone” (“Canzoni scritte apposta per te/ illuminare con il gusto e scomparire e rinnovarsi mai/ io non ti perderei/ tu allontanarti da me/ un gesto irresponsabile/ minaccia dal profondo la mia stabilità”) incontra colori blueseggianti, sostenuti dal pianoforte ed incalzati dai ricami del sassofono e di un clarinetto che si lancia in un brioso solo. Ad ammorbidire l’atmosfera ci pensa la splendida “Fiore” (“Nu segreto dintra u core/ ma nessuno ti capiscia/ quannu si sulu e guardi u munnu/ u munnu ti tradiscia/ e ti dico criscia e vula/ aza i pedi e chista terra/ ‘mmenzo i nuvule e ru vento/ chiuda l’occhi e si cuntento”), poggiata sull’arpeggiare arioso del pianoforte, illanguidito dalle note gommose di una lapsteel. Altro momento interessante è “Mozza” (“E stare ‘nzeme nti profumi e l’Italie/ a mia mi piace tanto proprio tanto Montrial/ si po essere felici pure dintra u Canadà/ va bene sì va bene ma prima fammi mangià”), screziata dal levare della chitarra elettrica, dagli strappi ruggenti del pianoforte e dal lavoro, solista e sottotraccia, del clarinetto. “Bon bon bon” (“Si teni u core bono aspettami/ nun mi lassare mai perdunami/ mmenzo l’erba e dintra i fravichi/ tu si caduto e mo si libero/ ti ‘nni si juto nessuno sa duve si/ a casa tua è nu mare limpido/ ca nun canuscia solitudine/ sutta i pedi tua sa terra è vergine”) gioca sulle linee tessute dal contrabasso, allargate dalle pennate tremolanti della chitarra elettrica e da un pattern ritmico sabbioso e mediterraneo, col mugghiare roco del sax a spargere fraseggi e colore. La title track consta di uno strumentale vestito da valzer, sostenuto dalla fisarmonica e dalle visioni torride della chitarra elettrica. Penultimo passaggio dell’album è lo scarnificato tango di “Marinari perduti” (“Simo rimasti senz’anima/ e nun sapimo pecchí/ nu lampo in cielo na lacrima/ ca dicia tutto oramai”), graffiato dal violoncello e smorzato dal pianoforte e dalle note dense del pianoforte. In chiusura, ecco la splendida “Carizzi” (“Chi po fermare u vento ca/ ca s’ha arrobbato l’anima/ a storia tua è na favola/ si sempre stata l’unica/ davanti u mare a ridere/ senza tempo e senza età”), poggiata su un commovente pianoforte e su una elegante linea di contrabbasso, seguita dalle figurazioni rarefatte della batteria. In ultima analisi, Peppe Voltarelli- e, meglio ancora, la sua musica- si conferma cantore necessario di un Sud meticcio, (e)migrante, nostalgico e tenero, voce di terra ed animo d’acqua, sintesi commovente ed un po’ guascona di un modo genuino di vivere la vita. Con “La grande corsa verso Lupionòpolis” ci regala un lavoro ispirato, vivo di quella poesia beffarda e sanguinante che ti lascia lì, “come cane di fronte al mare”. Un gioiello vero, poco altro da aggiungere. 


Giuseppe Provenzano

Foto di Danilo Sam (1, 2, 3, 4) e Francesca Magnani (5, 6 e 7)

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