Alla storia della musica napoletana – esemplarmente articolata ancorché puntellata di elementi fin troppo riconoscibili – si può aggiungere un ulteriore e importante tassello. Che, se da un lato contribuisce a confermare quanto sia energico il nervo della tradizione espressiva di Napoli e dintorni, dall’altro rappresenta una vera e propria epifania. “Amore e Guerra” – nuovo album del duo Il Tesoro di San Gennaro – è il risultato di una passione musicale (involontaria, insopprimibile, vincolante) che determina una visione a dir poco nuova: musiche popolari interpretate in un contesto esecutivo elettronico. Una visione nuova non tanto delle possibilità legate all’interpretazione di un repertorio (quello popolare napoletano) che, come si diceva prima, veicola parametri espressivi affascinanti e complessi. Quanto dell’ampiezza e della profondità (non del tutto esplorate e analizzate) che la canzone e la musica di quest’area – intese entrambe e nel loro insieme organico, come un riferimento storico, linguistico, politico, insomma culturale (lasciamo stare l’identità) – portano dentro alla nostra contemporaneità. Infilzandola come carne su uno spiedo, e roteandola all’infinito dentro una parabola visionaria che ingrandisce tutto, mettendo a fuoco, allo stesso tempo, il nucleo e la vitalità di una narrazione straniante: che compone immagini inverosimili quanto paradigmatiche. Insomma, assistiamo da decenni (e per fortuna) a scelte interpretative, così come a processi compositivi, che riconducono alla cultura della canzone napoletana. E, in questo ricchissimo vortice di soluzioni, abbiamo più volte sgranato gli occhi davanti a esiti difficilissimi da immaginare, ma che, una volta condivisi, hanno in molti casi evidenziato un nuovo spazio, una nuova dimensione: non solo plausibile ma (per fortuna per molti) necessaria. Come si diceva, le soluzioni, in questo percorso decennale di rigenerazione, sono state non solo eterogenee ma addirittura rivelatrici: perché hanno aggiunto visioni su visioni, rilevando e aprendo, senza retorica, alla vera contemporaneità delle espressioni tradizionali (scriverlo sembra scontato: d'altronde si tratta di narrativa e canto popolare, hic et nunc, di cui, per definizione, sfugge la genesi, cioè il come, ma mai la contestualizzazione, la funzione, la praticabilità, l’uso, cioè il perché). Basti pensare alla grande storia della scoperta del sostrato (subalterno, sotterraneo) orale della musica napoletana che, con i famosi microsolchi di De Simone (tanto per citare uno dei miti di fondazione: egli per primo – De Simone – musicista, compositore, intellettuale imbevuto di molteplicità), ha traghettato la meraviglia e il panico avvolti nella musica praticata dai contadini: tanto “cafoni” (come si chiamano in dialetto napoletano e non solo) quanto “cacofonici”, disarmonici, disuniti, pre-estetici, irriducibilmente rivoluzionari. Basti, poi, avvicinare alcuni esiti interpretativi che di quelle musiche sono stati condivisi per tramite del “movimento” operaio, per riconoscere un altro grado di immedesimazione: crudo, rumoroso, incatenato a movimenti e immaginari più blindati ma altrettanto eloquenti e oppositivi. Inutile dire che la rivoluzione musicale degli anni Novanta, che a Napoli ha scaturito un movimento più artistico ma egualmente antagonista, non solo prende le mosse e si muove dentro questo orizzonte profondissimo, ma rivede, modulandola, proprio quella pragmatica musicale. Una pragmatica (piantata dentro Napoli) che sta tutta dentro il nome di questo duo, composto da Salvio Vassallo e Valentina Gaudini: Il Tesoro di San Gennaro. Nello stesso modo in cui, infatti, connota innegabilmente un’appartenenza (anche qui estetica e culturale) riconduce a un immaginario di passione, di tensione. Riconduce, cioè, all’immagine di una credenza lontanissima dalla fiducia dogmatica: vicinissima alla dimensione della fiducia, alla reciprocità, a una forma di ritualità incorporata ma che si rinnova, che si sperimenta e controlla. In questo nucleo contratto ma elastico di credenze, si scorge chiaramente la verità di una musica e di una narrativa permeabili nella forma ma evidentemente assoluti nella sostanza. Questa verità viene esplicata da Il Tesoro di San Gennaro, rimbalzando, con autonomia e originalità, tra i due grandi poli della nostra tassonomia: tradizione (gli otto brani in scaletta sono tradizionali e presenti in molti canzonieri storici: “Jesce Sole”, “’Na Bruna”, “Pigliate ‘na pastiglia”, “Italiella”) e innovazione (l’interpretazione è elettronica ed è tutta da scoprire).
Daniele Cestellini
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