Mario Salvi – Volata (Visage Music, 2023)

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È uno dei nomi di punta della geografia della piccola fisarmonica diatonica in Italia. Musicista di lungo corso, Mario Salvi si muove in punta di piedi, lontano dai riflettori mediatici, eppure la sua attività musicale è pienamente dentro gli sviluppi di questo strumento in Italia, è uno dei più rispettati artisti per chi in queste musiche cerca “affetti sonori” ma anche l’equilibrio tra attingere a pratiche di tradizione orale e abilità compositiva rivolta a seguire nuovi percorsi ma sempre con gusto terragno.  Si contano sulle dita di una mano le produzioni discografiche a suo nome, dal 1988 ad oggi, però ci sono sue composizioni finite in compilation importanti: due su tutte: “Planet Squeexebox” (Eclipsis Arts 1995) e “Italie: instruments de la musique populaire” (Musique du monde/Buda 2003), ci sono le sue documentazioni etnomusicali: “’La pizzica nascosta’ – l’organetto nella musica e nei canti tradizionali di Villa Castelli” (Kurumuny 2008), le numerose collaborazioni discografiche (José Barros, Radicanto, Aramirè, Modena City Ramblers, Riccardo Tesi e il docu-film “Mario Salvi, l’organetto della ‘terra dei trulli’”, prodotto da Karkum Project. A distanza di vent’anni dalla pubblicazione del suo quarto disco solista, “Taranteria” (Finisterre, 2003), Salvi lancia “Volata” (Visage Music), lavoro che impressiona per la scrittura lineare ma incisiva, che riannoda i fili della fitta vicenda artistica e di vita di questo musicista romano (classe 1956), da vent’anni residente nella Valle d’Itria, e con una lunga parentesi lavorativa in Belgio. Il suo meticoloso racconto a tutto campo, significativamente raccolto da Salvatore Esposito a San Vito dei Normanni con le note in sottofondo del sound check di Riccardo Tesi ed Elastic Trio, attraversa decenni di conoscenza e innovazione della musica popolare. (Ciro De Rosa)

Partiamo dagli inizi: come ti sei avvicinato all'organetto? 
Sono entrato in contatto per la prima volta con l’organetto nel 1977, durante una vacanza in campeggio. C’erano due ragazzi di Salerno che erano lì a suonare, Giancarlo Capacchione e Pino Musi, che erano rispettivamente organettista e tamburellista del TeatroGruppo di Salerno. Da quel momento, mi sono appassionato allo strumento e ho cominciato a cercare di comprarlo, ma all’epoca, ero uno studente, e non avevo neppure i soldi. Piano piano, però, sono riuscito a metterci le mani. Ho cominciato da autodidatta, perché suonavo l’armonica a bocca e facevo blues. Ero, quindi, già predisposto in qualche modo a passare dalla bocca al mantice. Vivendo a Roma, ho seguito prima un seminario con Ambrogio Sparagna alla Scuola di Musica Popolare di Testaccio, poi, nella nuova scuola che aveva aperto al Circolo. Ho studiato con lui circa tre anni, imparando un repertorio che non conoscevo e ho migliorato la tecnica. Poi, sono passato anche io tra quelli che insegnavano ai principianti al Bosio e sono andato avanti un paio di anni, finché ha chiuso la sede di San Lorenzo. Ambrogio si è concentrato sul progetto Bosio Big Band, mentre io ho preferito fare un percorso mio. Avevo frequentato per qualche anno Lettere con indirizzo etnomusicologico all’Università di Roma e avevo sostenuto i vari esami con Carpitella, Cirese, Mazzoleni, anche se non ho terminato gli studi, questo mi ha dato gli strumenti per fare delle ricerche per conto mio sulle tarantelle nelle province di Napoli, Avellino e Salerno, concentrandomi su musiche e canti tradizionali ho conosciuto da vicino i suonatori di tamburello, zampogne e, naturalmente, organetto e, da loro, ho ricevuto molti insegnamenti tecnici. 

Un incontro importante è stato quello con Raffaele Inserra, figura di spicco della tammorra? 
Dopo l'esperienza universitaria che si è conclusa nel 1980, ho cominciato a lavorare, ma ho continuato anche a suonare nei Sinti, un gruppo di Roma in cui suonavano Luciano Gaetani che ha fondato i Modena City Ramblers, Stefano Tavernese ancora attivo nel giro blues e Carlo Rizzo, ormai da lungo tempo in Francia. Insomma, strumentisti molto bravi che hanno continuato anche dopo lo scioglimento del gruppo. Insieme a loro ho cominciato a fare concerti tra il 1981 e il 1984. Nel frattempo, suonavo anche con Nando Citarella: facevamo musica proprio del Sud. Insieme abbiamo conosciuto Raffaele Inserra, che abbiamo incontrato la prima volta alla festa della Madonna dei Materdomini, a Nocera Superiore e, da lì, è partito un sodalizio musicale, durato a lungo. Con Nando, invece, ho collaborato fino al 1985: facevamo di tutto, facevamo lezioni di danze popolari. Per una serie di motivi da quel periodo ho scremato, mi è rimasta praticamente questa collaborazione con Raffaele. Ho lavorato per tanti anni come funzionario in un sindacato di agricoltori, che è stata la mia attività prevalente, ma ho continuato a anche a suonare. A quei tempi vivere di musica non era facile. Riccardo Tesi lo può dire… solo che lui ci ha creduto e ha continuato. 

E hai anche registrato dischi…
Il primo disco, “Effetti personali”, è del 1988, nel 1997 “Caldèra” e nel 2003 “Taranterìa”. Nel frattempo, nel 2001, con Roberto Tombesi e Ciuma del Bevano Est abbiamo creato questo progetto che è durato anche quello qualche anno e ha dato sbocco al disco “Il mare di lato”, dove tutti e tre abbiamo portato le nostre composizioni per trio. Ci sono state una serie di cose che sono successe tra la metà degli anni Ottanta e l’inizio dei 2000, dopodiché io mi sono trasferito in Puglia e si è aperto un altro capitolo, completamente nuovo… 

Tornando alle tue esperienze campane, hai frequentato anche Montemarano…
In anni non sospetti: dopo è diventato molto più difficile con troppa confusione, troppa gente e troppi 
interessi. Dal 1978, passando per l'anno del terremoto (1980, ndr), e fino al 1984 sono andato tutti gli anni al Carnevale. A dicembre del 1980 ero a Lioni a dare una mano con i volontari, tant’è che l’edizione del 1981 è stata molto minima perché in quelle zone il terremoto aveva fatto tantissimi danni. A partire dal 1985, un po’ per il lavoro e per altre cose che stavano succedendo ho lasciato un po’ Montemarano e ho continuato con i montemaranesi a Roma, con cui facevamo sempre feste insieme. La tarantella montemaranese l’ho imparata a suonare come si deve proprio a queste feste. Non ci sono possibilità: la musica puoi ascoltarla e puoi fare tutto, ma ti devi trovare con il clarinettista, il fisarmonicista e, in una di queste famiglie che si riunivano a Roma, c’era anche un organettista. Lì ho imparato tutto, anche il tamburello che già suonavo ma cominciai a farlo meglio proprio con la montemaranese.

Quali elementi poi da queste tue frequentazioni a Sud sono entrati poi nel tuo stile personale? 
Sai, il mio stile me lo sono creato ascoltando. Non concepisco che uno possa suonare senza aver ascoltato le cose che gli servono per formarsi, per formare il proprio stile, il proprio modo di suonare. Tanti, adesso, ascoltano qualcosa e poi si inventano qualsiasi cosa, ma non è il mio percorso, non è il mio modo di imparare. Quando suonavo l’organetto all’inizio, dopo i primi anni di studio con Ambrogio, ho suonato di tutto: musica francese, celtica, balcanica, e anche alcune cose mediterranee. Già all’epoca con i Sinti avevamo già un melting pot che però nessuno voleva sentire: eravamo in anticipo sui tempi. Un punto di riferimento è stato, naturalmente, Marc Perrone, protagonista della rinascita dell’organetto in Francia. Lui
ha influenzato molti organettisti ‘urbani’ anche in Italia. Ha rappresentato uno stimolo a comporre brani per organetto.

A un certo punto ti trasferisci in Valle d'Itria. Incomincia questa frequentazione con la musica della Valle d'Itria, con Villa Castelli, Cisternino. Hai avuto modo di lavorare con Vituccio de Carcagne che comunque era un “albero di canto”, no? 
Non solo lui, però, c'era Giandomenico Caramia... Insomma, il gruppo di cantori di Villa Castelli.  Beh, questa è stata l’esperienza, che ti confesso, è senz'altro più bella della mia vita dal punto di vista musicale. È durata qualcosa di più di sette anni, forse di più, con Vituccio ma dopo la scomparsa improvvisa e prematura di Giandomenico non è stata più la stessa cosa. Non dimenticherò mai gli anni tra il 2004 e il 2011 perché ero entrato in contatto con delle persone che non solo sapevano suonare e cantare, ma hanno anche delle cose da dirti, delle cose da trasmetterti. Insomma, un’esperienza vita che è irripetibile. Si era stabilito un rapporto molto forte e quando si cantava e si suonava ti raccontavano una serie di cose, anche private. Quando si fanno le ricerca sul campo cosa si fa? Si va con il microfono e si dice: fammi sentire questo, fammi sentire quello. Vituccio, quando lo andavi a trovare a casa, dopo che si era ritirato con le capre, riparava le capre nello jazzo, le mungeva, poi rientravamo e mi offriva un bicchiere di vino e mi raccontava tante cose, esperienze e storie. 

Invece con Giandomenico Caramia che rapporto c'era? 
Giandomenico era oltre che un amico è stato un allievo, un amico, ma anche un fratello per il quale ho sofferto molto quando è morto. Perdere una persona così a quarantadue anni per un per una stronzata della
vita, insomma. Giandomenico è stato il mio migliore allievo, perché è passato dall'organetto a otto bassi, che già suonava un po', a un repertorio da diciotto bassi, seguendo proprio tutte le dritte che io gli davo. È stato l'unico che ha imparato a suonare come me, ma anche meglio di me. Lavorando con Mimmo Epifani ha fatto delle cose che non erano facili da suonare con l'organetto e l'ha lo ha fatto egregiamente e questo, forse, è anche un po' merito mio perché l'ho stimolato, l'ho spronato. Lo consideravo un fratello perché conoscevo la sua famiglia e frequentavo regolarmente casa sua. Insieme allo zio siamo andati a Recanati da Castagnari a comprargli l'organetto buono. Questo signore di ottanta anni è venuto con il portafogli pieno di soldi e gli ha regalato l’organetto. Giandomenico ha suonato pure nell'orchestra della Notte della Taranta di Ambrogio nel 2006, mentre nel 2007 e nel 2008 abbiamo portato Vituccio, con cui siamo tornati nel 2011. Vituccio ha dimostrato di essere un uomo da palco. Pastore per caso ma non sul palco. Senza contare i tanti concerti del festival itinerante a cui abbiamo partecipato. 

Arriviamo a “Volata”, il disco nuovo, che è pieno di tanta musica: come nasce? 
Lo dovevo fare nel 2008 poi, per una serie di motivi, ho rinviato sempre, finché mi sono detto: “Ora che sto in pensione, l’aggià fa ‘u disc!”. Ho cominciato a lavorarci nell’inverno 2021, ho rimesso insieme tutti i pezzi e qualcuno in più anche che avevo pensato di mettere nel disco che doveva nascere nel 2007-2008. Sono brani che ho scritto e composto negli ultimi vent'anni.

Anzitutto, c’è questa collaborazione con José Barros, che canta e suona la chitarra acustica e la braguesa…
José Barros è una persona molto musicale ti dico sono stato contento che ha raccolto il mio invito a suonare e a cantare in questo disco. Lui è passato da queste parti tante volte, suonando con Mimmo Epifani. Lui ha suonato in due brani e in uno dei due ha anche cantato. Ha coinvolto anche il suo amico José David un suo amico polistrumentista (chitarra acustica, tarota, adufe e pandereta) e ha suonato in tre brani. Sono molto contento di quello che abbiamo registrato allo studio di José in Portogallo e che poi abbiamo inserito e mixato a Bari. È venuto un bel lavoro. 

C’è “Barba e Capelli”, pezzo che avevi scritto proprio per Giandomenico...
L'ho messo perché José Barros aveva suonato in “Barba e Capelli” e ovviamente anche José David, perché entrambi conoscevano Giandomenico. È il nostro ricordo di Gianni che era doveroso fare con una nuova versione con il clarinetto e il flauto di José.

Ci sono tante altre collaborazioni, dalla Puglia alla Campania... 
C’è Giovanni Chirico che è un musicista jazz, Adolfo La Volpe, Alessandro Pipino, mentre dalla Campania ci sono Raffaele Inserra, la voce di Dina Iscaro, una cantante di San Giorgio Del Sannio (Bn), secondo me una delle migliori voci popolari campane, e Raffaele Tiseo al violino che, attualmente, suona con Vinicio Capossela ed è anche un direttore d’orchestra. Ci sono altri musicisti come il chitarrista, cantautore e liutaio Giulio Cantore e Francesco Savoretti alle percussioni. 

Andrea Salvi è tuo figlio? 
C’è un un cameo alla fine di “Tarantella di San Nicandro”. L'ho dovuto convincere, perché non era per niente convinto di registrare insieme questa cosa, non l'avevo mai fatto, ma c'è sempre una prima volta. 

C’è una sola pizzica, alla fine…
“Pizzica stregata” segna un po’ una cesura tra le tarantelle e le pizziche e il ritorno ai brani meltin’ pot più contaminati. L’idea era quella di testimoniare che quello che scrivo arriva da un ascolto e non è campato in aria. Ci tengo a far sentire da dove vengono i pezzi, non vengono solo dalla mia testa, dal cuore, dalle mani, vengono anche dalle esperienze che ho fatto, dal background, dalle terre che ho girato, dagli amici che ho incontrato, una serie di una serie di cose. Per esempio, la “Scottish Romanza” è una composizione che riprende il modo di fare la Scottish del brindisino. Sono stato lì a pensare se dovessi metterci un testo cantato, perché qui si canta sul ritmo dello “scozië”, come si chiama qui in dialetto, ma poi ho pensato di fare una cosa diversa e, magari, un domani si potrà anche aggiungere un testo.

Ci sono musiche da ballo, ma non solo … 
Molte composizioni si possono ballare, ma non tutte. “Fontamara”, quella che apre il disco, è una musica che io ho scritto per il teatro per uno spettacolo su Ignazio Silone. “Matinata Nova” è, invece, un modo di riscrivere la matinata salentina ma con un’apertura molto più mediterranea, diversa dal canto di questua classico che si fa esegue la notte per il padrone di casa per avere le uova per il Sabato Santo. C’è un lavoro di apertura proprio di altri orizzonti. Tra i brani da ballare, c’è, per esempio “Jadran”, una via di mezzo tra un circolo circasso e una muñera gallega, e nella mia versione può essere ballata nei due modi. La “Sierrana” è la mia riscrittura in musica a tempo di tammurriata della storia di Donna Sabella, la principessa di Salerno. L’unico brano che non si balla è “Diavolina”; un brano strano che risale a quando stavo in Belgio.

Hai già avuto modo di suonare dal vivo il disco. Qual è stata la risposta del pubblico?
Abbiamo fatto il primo concerto a Civitella Alfedena, al nuovo festival, Suoni sul Lago. Per il futuro vedremo, lo proporrò sempre in quartetto con chitarra, basso elettrico e tamburi a cornice e questo ha richiesto un grande lavoro di riarrangiamento dei brani. Questa è la forma più agile che ci consente di stare
sul mercato.

Hai parlato del tuo rapporto con Giandomenico che era tuo allievo ma attualmente tu continui a insegnare? 
Ho cominciato ad insegnare l’organetto in Puglia, proprio grazie a Giandomenico che conoscevo solo di vista. Venne a casa mia e mi disse: “Guarda tu devi venire a Villa Castelli a insegnare l’organetto perché io devo imparare a suonarlo”. Mi mise in contatto con la scuola di musica nella quale insegno ancora, dopo vent’anni. Mi sono dato da fare per formare sia i ragazzi, ma anche molti adulti. E’ venuta tanta gente che in famiglia aveva un parente che suonava l’organetto e a quaranta, cinquant’anni voleva imparare a suonarlo. Ho fatto del mio meglio, devo dire che comunque nessuno è andato via senza aver imparato almeno quelle quattro o cinque suonate del paese. Questa cosa ha mantenuto in vita la tradizione musicale di Villa Castelli. Alcuni miei allievi come Giandomenico finché ha potuto, Angelo Ignazio e adesso Pasquale Barletta e diversi giovani, tra i venticinque e i trent’anni hanno cominciato ad insegnare, hanno cominciato ad insegnare allargano la platea anche ai giovanissimi. Attualmente, tra quelli che frequentano regolarmente, abbiamo circa dieci allievi nelle varie scuole, ma tra quella mia e quella di Pasquale saranno passati almeno quaranta o cinquanta che suonano bene il repertorio del paese. Certo non è facile, se non in casi eccezionali, allargare la prospettiva di questi ragazzi. 

Hai avuto modo di collaborare anche con Castagnari e apportare un contributo tecnico allo sviluppo dell’organetto…
Quando, tra il 1979 e il 1980, ho conosciuto Castagnari i suoi strumenti erano già di un altro pianeta. Prima suonavo quelli di altre ditte, ma quando ho messo le mani su un loro organetto è cambiato tutto. In seguito, gli ho chiesto alcune soluzioni per migliorare le possibilità tecniche. Attualmente, suono un
organetto diciotto bassi e un dodici bassi a seconda delle situazioni. Il diciotto bassi è quello standard, ma lo schema delle note sulla tastiera e l’accordatura l’ho scelte io, dopo alcune ricerche tecniche fatte diversi anni fa. Il mio modello è completamente diverso da quello, ad esempio, di Riccardo Tesi. Questo può essere un problema perché i miei brani nascono su quello strumento specifico e, per un giovane, diventa difficile suonarlo con tastiere non compatibili. L'unica particolarità che poi è stata adottata da molti è la famosa rivoluzione del quinto tasto della fila interna. Sono stato io, nel 1985, a chiederlo a Castagnari di costruirmi l’organetto con quel Sol giralo al contrario, perché è quel Sol che usano anche nel due bassi e nel quattro bassi e a me fa comodo averlo pure sull’otto bassi. È una soluzione che è stata anche molto criticata, ma si usa anche in Belgio, Germania e Olanda. 

Hai assistito all'evoluzione, ai cambiamenti e alle mutazioni genetiche del folk revival in Italia Qual è la tua prospettiva? C’è stato un impoverimento o un arricchimento?
C’è stato un arricchimento, senz’altro. Il problema non è cosa si fa, perché si fa tanto, il problema è cosa si perde e cosa si acquista. Credo ci siano esperienze che non sono abbastanza meditate e altre, invece, molto ricche. Negli anni, c’è stata un po' una scrematura e c’è chi è rimasto a fermo dov’era e chi è andato più avanti, lavorando seriamente, raffinando il proprio repertorio e il proprio modo di suonare e gli arrangiamenti. Prima eravamo quattro gatti a suonare questo genere di musica adesso è esplosa nel bene e nel male, perché in tanti suonano bene, fanno cose originali e poi c’è chi si è fermato al cash.

Concludiamo, come valuti, come giudichi i giovani organettisti e le ricerche che stanno facendo i giovani organettisti? 
Sono molto importanti le ricerche che fanno, è bene che le facciano, perché se non le fanno finisce tutto con noi: le cose devono andare avanti. Non entro nel merito dei risultati, perché vedo che adesso si usano molto le loop station e l’elettronica. Personalmente faccio fatica ad appropriarmi di queste tecnologie e non perché sono di un'altra generazione, ma credo siano cose che finiscono in qualche modo per isolarti. 


Salvatore Esposito, con il contributo di Alessio Surian e Ciro De Rosa


Mario Salvi – Volata (Visage, 2023)
Per riassumere la densa vicenda artistica e di vita del musicista romano da vent’anni residente nella Valle d’Itria, tra Cisternino e Ostuni, e con una lunga parentesi lavorativa in Belgio, riprendo il titolo di un suo brano, “Un futuro a Sud”, contenuto in “Caldèra” (1997, Finisterre), paradigma di quella cifra compositiva dell’organettista, proiettato nella sintesi tra portato dei modi esecutivi dell’organetto nella tradizione musicale centro-meridionale e autorialità, un atteggiamento che lo ha condotto a diventare uno dei punti di riferimento della rinascita e delle nuove vie compositive del folk che la piccola fisarmonica diatonica ha percorso dagli anni Settanta in avanti nel nostro Paese. Perché, chi conosce Mario Salvi, personaggio sobrio e dimesso, spesso lontano dai riflettori ma ben noto nel movimento musicale trad italiano, sa che la sua ricerca e produzione si è quasi interamente mossa sul terreno di sonorità che, pur restando sostanzialmente acustiche, adottassero libertà delle procedure compositive e di arrangiamento. E così quando si trattava di esporre il suo personale florilegio del mondo della tarantella, Salvi esibiva il suo rapporto intimo con il linguaggio tradizionale e però, proiettandosi oltre, si imponeva per le complesse trame di micro-variazioni melodiche, incastri ritmici, sfumature eleganti e dinamiche al contempo, che abbiamo ascoltato ben vent’anni fa nella sua monografia sulla tarantella “Taranteria” (Finisterre, 2003). Così è per “Volata”, concepito parecchi anni fa ma che solo ora vede finalmente la luce, lanciato con un efficace titolo ciclistico (da sempre sport popolare in Italia, come i suoni a cui si è alimentato Salvi), dove l’organettista raccoglie tredici composizioni ispirate dai “diversi momenti della mia vita”, dice, che proprio di “Caldèra”, altra immagine evocativa della pentola della cultura popolare come del calore della terra spinto in superficie, vuol rappresentare un passaggio progressivo. Nell’apertura, “Fontamara”, gli strumenti sostengono e dialogano con il monologo (la voce recitante è dell’attore Gianni Iacobacci) scritto per una pièce teatrale sul romanzo di Ignazio Silone. La scena diventa ottocentesca in “Scottish romanza”, ballo ripreso secondo prassi esecutive da sala con piano (Alessandro Pipino) e violino (Raffaele Tiseo) che accompagnano l’organetto. Con “Serenata in 5”, la modalità stilistica della Murgia meridionale incontra nel suo sviluppo in tempo dispari di 5/8 una serenata portoghese, cantata da José Barros, da tempo frequentatore con i suoi cordofoni delle terre del brindisino. Non poteva mancare un passaggio campano, luogo del cuore e di lunga ricerca musicale per Salvi nella sua formazione: ha un lontano precedente in “Oriente Vesuviano”, “Vient’ ‘E levante”, tema che riprende la struttura del ballo n’copp o tammurro assumendo una fisionomia che schiude le porte sonore del Vicino Oriente. Il testo, cantato dall’ottima vocalist sannita Dina Iscaro, narra della lotta che i marinai ingaggiano con il vento di Levante che nel mare Tirreno spira contrario alle barche quando la prua è rivolta per tornare a terra. Al sax baritono di Giovanni Chirico il compito di soffiare la tensione e alla tammorra di Raffaele Inserra (compagno di tante avventure salviane), guru del tamburo e della devozione tradizionali, il compito di dare corpo a un motivo che prosegue senza soluzione di continuità in “Tarantella segreta”, altro fulgido esempio dell’estro organettistico, che qui incrocia anche la tarota (oboe pastorale catalano, suonato da José David). Il danzante e ‘leggero’ “Barba e Capelli”, dove si sviluppano linee di clarinetto (Renato Tapino) e flauto (José David) è un altro brano che viene dal passato ed è un omaggio e un ricordo di un allievo divenuto quasi un fratello minore: parliamo dell’indimenticato Giandomenico Caramia, organettista e ricercatore di Villa Castelli, scomparso prematuramente nel 2011. Si avvertono oscillazioni mediterranee e balcaniche nella splendida “Matinata Nova”, la serenata alle uova, eseguita la notte prima di Pasqua nelle campagne della Bassa Murgia con organetti e tamburelli. Coscienza musicale asciutta, meditata e lirica in “Slowdown waltz”, dove Pipino e Tiseo sono ancora complici dell’eleganza compositiva, che traspare pure nella successiva “Diavolina”, in cui le percussioni di Francesco Savoretti si aggiungono a dare la spinta ritmica a un tema d’ascolto che richiama la fertile scena organettista francese e belga. “Sierrana”, invece, ci riporta in Campania: è una tammurriata su cui poggia un testo cinquecentesco ispirato alla storia di “Donna Sabella”. Segue il passo arabo-andaluso di “Tangerina” e quello danzante di “Jadran”, che ci fa viaggiare lungo le sponde orientali del Mare Adriatico, ma occhieggia anche nel suo andamento ritmico un circolo circassico e una muñeira dell’ovest iberico. Fa capolino, finalmente, una pizzica, “Pizzica stregata” a suo modo ibridata, dove il mondo salentino incontra quello murgiano, con i tamburelli di Antonio Palmisano e Raffaele Campanelli, il violino di Tiseo e ancora la voce di Iscaro. Dalla parola cantata a quella recitata di Guglielmo Pinna nella conclusiva “Morale”, sulla scia della favolistica esopiana. Arrivati fino in fondo si raggiunge la bonus track, una breve e vivace versione in duo padre-figlio, della “Tarantella di San Nicandro”, eseguita da due organetti con il figlio Andrea. Un album che riflette conoscenza profonda e rispetto per le espressioni tradizionali, pietra angolare per la composizione di nuove musiche per organetto. 

Ciro De Rosa

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