È un ritorno discografico che finisce per coincidere col riportare tutto a casa, quello di Matteo Leone, bluesman di Calasetta che, a sei anni di distanza del precedente “Scattered House Place”, ci accoglie, letteralmente, nelle sue radici. Letteralmente, perché “Raixe”, il titolo del suo nuovo album, significa proprio “radici”: chiaro che, con presupposti del genere, non potevamo non aspettarci un disco denso di vita vissuta, in tutte le sue sfaccettature. C’è effettivamente di tutto, in questo lavoro: ogni ispirazione del nostro, dal blues più acido e terroso, quello che guarda al Nord Africa come stella cometa, a momenti più intimamente cantautorali, il tutto declinato in salsa tabarchina, questo dialetto ligure che, su arcaismi cinquecenteschi innesta parole franco-piemontesi e lemmi tunisini, figli diretti – tanto per cambiare – delle radici migranti di Calasetta, paese di nascita di Leone, ripopolato nella seconda metà del '700 proprio da pescatori di origine ligure provenienti dalla città tunisina di Tabarka, già insediatisi a Carloforte (Isola di San Pietro), che fondarono anche la cittadina della costa settentrionale dell'isola di sant'Antioco.
Ad aprire il disco ci pensano le ossute trame elettriche di “In mézu ô mò”, in bilico fra sabbie blueseggianti e spoken cavernosi. A seguire, la title-track, in cui l’alto voltaggio desertico tratteggiato dalla chitarra si infrange sull’elettronica spigolosa di Arrogalla. “A Zabétta” incontra un incedere ritmico decisamente più arioso, sottolineato perfettamente dalle incursioni di fiati dal sapore carioca (made in Forelock, ospiti del pezzo). “Angelina” fa scorrere la sua malinconia lungo l’umido arpeggiare della chitarra, squarciata dagli interventi di un Hammond indiavolato. A seguire, “Tabarka (blues)” si srotola lungo le visioni torride e corrosive della chitarra elettrica, scortata da una sezione ritmica incessante ed asfissiante. Il giro di boa del disco, che arriva con “Mustru”, tinta di colori acustici che sembrano dare respiro alla tempesta di sabbia che ci arriva contro, ma che vengono prontamente screziati di acidità dai fraseggi della chitarra elettrica. “Tra tera e mò” gioca sullo splendido incastro di un bouzouki e dell’organetto di Pierpaolo Vacca, in quello che è uno dei momenti più interessanti del disco. “Figiö” torna a costeggiare il Nord Africa, scandita da un pattern ritmico sabbioso, perfetto terreno di scontro per lo scontrarsi spastico di bouzouki e chitarra elettrica. “Dragut” poggia su un languido blues, animato da una carnosa linea di basso e scarnificato dalle abrasioni elettriche della chitarra. Anche “Nàigri” cammina lungo la spina dorsale di un basso caleidoscopio, infuocato dal fulmicotone arido della chitarra elettrica. Penultimo passaggio dell'album è la splendida “Calasettana”, a cui atmosfera crepuscolare è riscaldata dagli interventi vellutati della Banda Musicale Giacomo Puccini di Calasetta e contrappuntata, nel cantato, dal Coro Serenate Calasettane. Chiude l’evocativa “Tramuntu”, scandita dai dolci arpeggi della chitarra acustica.
In ultima analisi, ci troviamo all'ascolto di un disco ispirato, figlio (o quantomeno nipote) di Faber e dei Tinariwen, ma anche di una tradizione popolare che sposta la Liguria sul Delta del Mississippi: insomma, una splendida cartina geografica musicale. Condita, come se non bastasse, da una cura quasi maniacale per il racconto, e meglio ancora, per la necessità del racconto. È un disco viscerale, questo di Matteo Leone, uno di quelli che, in tempi del genere, vanno benedetti.
Giuseppe Provenzano
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