Chi ha buona memoria ricorderà l’inizio di questa storia musicale: dal vivo al Salone del Libro di Torino nel 2012 e poi con “Amada” nel 2014, occasioni per far germogliare la collaborazione fra il canto provenzale di Renat Sette e la musicalità di Gianluca Dessì fra chitarre e mandolini. Ne “La vida fin finala” la loro arte è tutta al servizio del sonetto e della musica provenzale, a quasi sessant’anni dalla prima registrazione di musica popolare in langue d’oc (il lavoro di Broglia sui versi di Robèrt Lafont registrato a Nîmes nel 1965) che ha aperto le porte ad un repertorio musicale oggi molto vasto. In questo contesto Renat Sette si distingue per lo spessore con cui sa farsi sarto musicale di poeti contemporanei, da Serge Bec a Guy Mathieu. È un’arte che sa infondere nei suoi numerosi incontri musicali: in Provenza con Pierre Bonnet ("Cantar", "Enamorada Madalena"), o con Patrick Vaillant e Bijan Chemirani, ma anche in Piemonte (“Dona bèla”, “Baia trio”), Sardegna ("Amada" con il duo Elva Lutza), Bretagna ("Chants de Bretagne et d'Occitanie" con Yann Fanch Kemener). Con lo storico e poeta Jean-Yves Royer (anche capraio, pittore, scultore, occasionalmente suonatore di carillon) ha stabilito una trentennale collaborazione, soprattutto per la ricerca che vede la lingua e cultura occitana protagonista nell’Alta Provenza, a cominciare da Forcalquier, dove Royer è nato. Ripetutamente, la loro intesa ha arricchito i repertori e gli spettacoli di Renat Sette e, nel 2016, il film “Balat”, ispirato all’opera poetica di Jean-Yves Royer, ha visto i suoi versi cantati da Renat Sette accompagnato al piano da Olivier
Maurel. Il momento sembra ora propizio per distillare le sonorità che si annidano fra i sonetti di Royer: Renat Sette, con Gianluca Dessì, ne ha tratto diciotto canzoni: un’occasione per intervistarlo su questo lavoro e non solo.
Ci puoi parlare della genesi e dello sviluppo della tua collaborazione con Jean-Yves Royer e di questo nuovo album?
Trent'anni fa, nel 1993, ho iniziato a cantare in provenzale. Avevo sentito parlare di Jean-Yves Royer, storico, poeta, medievalista e grande conoscitore della cultura provenzale e occitana in generale. Decisi di incontrarlo e andai a casa sua con la mia chitarra. Mi resi subito conto che c'era molto lavoro da fare, ma a lui piaceva e a me piaceva. Ho iniziato a migliorare la lingua e abbiamo passato le serate a casa sua con gli amici ascoltandolo e parlando di sempre più cose. Dal punto di vista musicale, la prima cosa che abbiamo fatto è stato lavorare sul repertorio provenzale raccolto da Damase Arbaud (le raccolte del 1850), in particolare sulle romanze. Questo ha portato al nostro primo album (1997) registrato con il chitarrista Pierre Bonnet (Cantar duo), un repertorio rivisitato, con i testi di queste raccolte restaurati da Jean-Yves. Poi, nel 1998, il trio con Patrick Vaillant e Bijan Chemirani. È in questo periodo che ho sviluppato anche un'attività solistica a cappella, che mi ha portato a tenere molti concerti in cappelle e festival. Allo stesso tempo, ho iniziato a collaborare con musicisti e cantanti della regione occitana, ma anche di altre regioni e Paesi: Yann Fanch Kemener, Maurizzio Martinotti, Montanaro, Gianluca Dessì e
molti altri. Per tutti questi progetti, Jean-Yves ha partecipato adattando i testi, traducendoli, contribuendo alla creazione dei brani. Jean-Yves e io abbiamo anche lavorato molto per raccogliere le musiche degli anziani dell'Alta Provenza. Un progetto di Recordance con l'associazione Cantar è culminato in un tour dell'area di raccolta con 25 concerti, un libro pubblicato da Alpes de Lumières e un album di canzoni registrate nelle case delle persone. Dopo tutti questi anni di collaborazioni, ho voluto naturalmente realizzare un progetto più personale, creando melodie basate sulle poesie di Jean-Yves. Questo è avvenuto in due fasi: un primo progetto di film-concerto, “Balat”, che ha visto la luce solo per tre festival e poi si è fermato. Tre anni fa ho avuto l'idea di rielaborare alcune di queste canzoni, crearne altre e chiedere al mio amico chitarrista Gianluca Dessì di fare tutti gli arrangiamenti per un album: “La vida fin finala”.
Come hai scelto le parole su cui lavorare musicalmente?
Dopo aver letto la raccolta di Jean-Yves, mi sono lasciato trasportare dalla musicalità delle parole, cercando di variare le melodie per ottenere un insieme di diciotto brani. “Balalin balalan” è stata la prima poesia per la quale ho composto musica. In precedenza, avevo scritto le melodie per poesie (in versi liberi) di Serge Bec e i miei colleghi si erano occupati degli arrangiamenti. Una sera, in occasione di un concerto
ad Apt, è arrivato Jean-Yves e sulla via del ritorno mi ha detto: Perché non scrivi musica anche per i miei sonetti? (a lui sembrava più semplice mettere in musica versi con forme regolari, io non ne sono sicuro...).
Quella notte sono rimasto sveglio e la mattina dopo ho musicato il primo sonetto. Da allora, ho composto musica per circa trenta sonetti, diciotto dei quali sono oggi in questo album. Fra gli altri, “Un còr passit passava” offre un tipico esempio di allitterazione che scandisce la melodia: passit passava a d’apasset, espi/nós des campàs. Ho messo l'accento e le ripetizioni sulla parola voudriáu (vorrei) isolandola in “Voudriáu èsser l'erbum” in modo che il resto suoni come una risposta, a evocare una trasformazione, un percorso di iniziazione... Non ci sono versi religiosi nella sua raccolta, ma per i ricordi dell’infanzia di “Vaquí que siam en mai”, quando accompagnava la nonna in chiesa, ho cercato una melodia più contemplativa, più sacra, come gli odori e i ciuffi di fumo che si mescolano nell'aria per raggiungere il cielo. “Lo còp venent venguet” evoca la musica di un viaggio che ho compiuto con Jean-Yves, nelle estivadas, o nelle valli italiane, e conosco bene la sua predilezione per itinerari lungo le strade minori, piacevoli, infinite, i buoni ristoranti... In “Au fliper dau cafè” con la melodia cerco di far sentire l’andamento a zig-zag della pallina dentro a un flipper, o potrebbe anche essere l’andatura di un ubriaco verso la sua destinazione. La melodia di “Espoutit dins la fanga” offre la dualità tra la parte narrata e il valzer della risposta che evoca il povero cuore che finirà schiacciato.
In che modo e in che misura queste canzoni raccontano la storia della Provenza?
Jean-Yves racconta essenzialmente la storia del suo mondo, dall'infanzia a oggi, nel suo villaggio natale di Forcalquier. Vivo in questa regione da 25 anni, quindi la conosco bene. È una Provenza che non è sul mare, che non è proprio in montagna, che non è nemmeno urbana, una Provenza che direi profonda e segreta.
Quali sono gli elementi di continuità e quali quelli di novità nel tuo rapporto con Gianluca Dessì nella produzione delle musiche di questi 18 brani?
Ho conosciuto Gianluca circa quindici anni fa e lavoriamo insieme da dieci anni. Ne sono nati il progetto dell’album “Amada” e alcuni concerti (con il trombettista Nico Casu e, talvolta, con la cantante Ester Formosa). Per questo progetto più personale e intimo, ho chiesto a Gianluca di occuparsi degli arrangiamenti. Sentivo che il suo particolare modo di suonare si adattava bene a questa creazione. Non è una cosa che è abituato a fare; ha più familiarità con la musica tradizionale, anche se, a volte, molto rivisitata. Qui bisognava costruire il lato moderno del repertorio e per lui, come per me, era necessario trovare un collegamento, un concetto della nostra cultura che si tingesse sia di musica tradizionale, sia di espressioni più folk-rock.
Avremo la possibilità di ascoltarvi dal vivo in Italia nel prossimo futuro?
Ci stiamo lavorando, e dopo otto concerti in Francia tra settembre e novembre, dovremmo suonare a Roma e a Latina a fine novembre.
Vuoi condividere con noi un ricordo di Maurizio Martinotti?
Ci sono molti ricordi, perché siamo stati in tournée insieme negli anni 2000 in Italia, Francia e Spagna, e abbiamo anche fatto un piccolo tour in Senegal. Era un ottimo melodista, arrangiatore e suonatore di ghironda. Oltre alla musica, amavo la sua passione per il cibo e il buon vino, e il suo senso dell'umorismo, a volte agghiacciante; le sue piccole frasi, per esempio, quando eravamo in tournée in Piemonte, diversi giorni nella nebbia, al mattino diceva "piove ma... fa freddo".
Renat Sette & Gianluca Dessì – La vida fin finala (Felmay, 2023)
Quattordici versi endecasillabi suddivisi in due quartine e in due terzine. Quella con il sonetto è una sorta di partita a scacchi in cui la struttura che ospita i versi chiede mosse finali e intermedie in rima. Si tratta di una forma-canzone che ne “La vida fin finala” vede le parole di Jean-Yves Royer incontrare le composizioni e gli arrangiamenti musicali offerti da un duo affiatato: Renat Sette e Gianluca Dessì, impeccabilmente sostenuti da Jens Krause che, oltre alla presa del suono, offre all’occorrenza piano e basso. Per tre dei brani Renat Sette ha scelto un’esecuzione a cappella: “Voudriáu” “Au flipper”, “Raiada d’odi” sono ben distribuiti fra gli altri quindici, quasi a tagliare in quattro fette l’opera complessiva, riportando per tre volte al centro la nuda voce in tutte le sue sfumature. Oltre a dare il titolo all’album, “La vida fin finala” lo introduce con un impeccabile miscela, in forma di ballata, di energie musicali e passi di danza a legare versi che sanno guardare in faccia le contraddizioni e le tristezze della vita, paragonata nella sua essenza alle paure insieme ai sogni di futuro di un eterno bambino. Già il secondo brano, “La luna ei dins son plen”, esprime anche in musica le angosce che Royer sapientemente Royer sa far filtrare fra le parole e le metafore sempre scelte con cura: in questo caso la luna piena non manca di far crescere il vuoto nell’anima di chi la osserva. Ne “Les temps passats / Les temps passés”, pubblicato nel 2006 con la traduzione dei testi a fronte in francese curata dallo stesso autore, Royer ha raccolto 151 sonetti che sanno tenere insieme intarsi barocchi, un linguaggio poetico che sa godere del quotidiano, dei piaceri della tavola e del letto, metafora puntuali. A metà della scaletta, “La paraula es un niau” propone un arrangiamento più squisitamente energetico e mediterraneo, un ponte fra Grecia e Sicilia, ricordandoci nei versi che “la parola è un esca e la vita ci attende sul trespolo, senza che tu possa sapere se deporrà un uovo o continuerà a covare il tuo desiderio”. La selezione operata da Renat Sette è rispettosa del sapore spesso amaro del testo, ma anche delle sue diverse venature, compreso l’andamento ternario e ballabile di brani come la danzante e gaia (nonostante il testo triste) “Coma pèira au molin” e il valzer “Un ostau escondut”, fra i pochi momenti più esplicitamente allegri, ravvivato da un ritornello cantato solo con un “la-la-la”, un felice rimpallo fra i due musicisti: Renat Sette aveva chiesto a Gianluca Dessì di eseguirlo con il mandolino, ma nell’arrangiamento di quest’ultimo è tornata protagonista la voce. Impeccabile è l’incontro di versi e musica nel mettere in risalto la capacità di sintonizzare i propri sensi con le piccole meraviglie del quotidiano, tema chiave che parte dal sambuco che chiama l’olfatto ne “L'odor dau sampechier”, omaggio di Royer al rapporto con la nonna e attraverso lei con la lingua provenzale, le storie del passato, le filastrocche, le piante, la cucina – sapori che questi sonetti-ricette musicali sono magicamente ancora capaci di offrirci.
Alessio Surian
Foto di Gianfilippo Masserano (1, 2 e 3) e Studio Setta/Merlet (4 e 5)