Ho conosciuto Marcello Colasurdo nei primi anni ’90: già da un po’ mi recavo in solitaria alle feste popolari campane (Madonna dell’Arco, Madonna delle Galline, Madonna di Castello, Madonna di Materdomini, ecc.), affascinato da quel mondo che allora, con l’ingenuità del neofita, mi appariva decisamente “pagano” sebbene incastonato in rituali dichiaratamente cattolici. E poi c’erano quei ritmi forsennati che, per chi veniva dalla frequentazione della musica angloamericana, sembravano una sorta di “riscatto” mediterraneo, qualcosa che ci apparteneva, di cui sentirsi fieri e da esplorare fino in fondo. Non conoscevo ancora nessuno di quel mondo rurale e all’epoca non avrei mai potuto immaginare che quelle feste le avrei frequentate per circa venti anni, ma Marcello lo si notava subito perché dava nell’occhio: enorme, sempre presente e sempre al centro dei capannelli dove si suonava, si cantava, si ballava. E affabile, ricordo che avendomi visto più volte cominciò lui a salutarmi.
La nostra amicizia cominciò qualche anno dopo, quando presi a lavorare a quello che sarebbe stato il mio primo libro, “Il Vesuvio nel motore”, dedicato alla storia del Gruppo Operaio di Pomigliano d’Arco ‘E Zezi (uscito poi nel 1998 per la manifestolibri) di cui Marcello era stato a lungo l’anima e che aveva lasciato
già da un pezzo. Entusiasta del mio progetto, mi introdusse nell’universo popolare pomiglianese, dove era nei fatti un vero e proprio “lasciapassare” che permetteva di raggiungere qualsiasi ambiente in quello che era davvero il suo habitat: cortili, masserie, case private, associazioni religiose, capannoni industriali, non c’era posto in cui io non avessi accesso tramite lui. Passammo assieme intere giornate: insieme andammo a vedere il sito dove era esplosa la Flobert nel 1975, argomento della canzone forse più famosa dei Zezi, e ricordo perfino che una volta ci recammo a fare una visita alla famiglia di un defunto e, in quell’abitazione, ebbi la possibilità di osservare tutti i rituali che accompagnavano la morte nelle società contadine: gli specchi girati verso il muro, la salma con i piedi in direzione dell’uscita, il lamento funebre, anche se in forma alquanto disgregata rispetto a quello che, qualche tempo dopo, avrei ancora potuto vedere in Basilicata proprio nelle forme in cui lo descriveva Ernesto de Martino.
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