Marcello Colasurdo: canto della terra, canto della fabbrica, canto della piazza

Ecco, Marcello viveva due realtà parallele e tutte con eguale intensità, anzi ne viveva addirittura tre. La prima era la fabbrica: era stato per anni uomo delle pulizie all’Alenia ma a Pomigliano la fabbrica dava lavoro a tanti ed era difficile, se si stava a Pomigliano D’Arco, non avere a che fare con persone coinvolte nel lavoro di fabbrica e con tutto ciò che dalla fabbrica deriva (lotte politiche, manifestazioni sindacali, cortei…); poi la tradizione popolare, quella più arcaica, quella che si studia sui libri di etnologia: le anime del Purgatorio, il carnevale, i balli dove si imitano le movenze degli animali, il teatro rituale, le melodie costruite bypassando il sistema temperato e le regole della musica tonale; e poi c’era il mondo dello spettacolo dove, ugualmente, lui era perfettamente a suo agio: palchi, microfoni, amplificatori, teatri, televisioni (non aveva nessuna remora a prodursi in strepitose analisi antropologiche condite di richiami agli antichi culti di Dioniso, Demetra e Cibele…) e dunque spostamenti per tour e incontri con musicisti famosi come capitò con Manu Chao o con Peter Gabriel. Marcello era, insomma, l’esito creativo di una modernizzazione caotica e alienante, certamente, ma non priva, per chi sapesse coglierle, di opportunità emancipatrici. Da qui la sua inquietudine, la sua voglia di autonomia, dimostrata quando lasciò il Gruppo Operaio proprio nel momento in cui quella formazione aveva ritrovato il successo popolare negli anni ’90, dopo la pubblicazione del bellissimo “Auciello ro mio posa ‘e sorde” (1994), per ricominciare da zero con la sua “paranza”, il suo piccolo gruppo di fedelissimi accompagnatori con i quali, nel 1997, registrò “E manco ‘ sole ce ‘a sponta” per CNI, decisamente rivolto alla musica di tradizione  e nel 2007, sulla stessa linea, “Tammurriate e canti popolari devozionali”, pubblicato dalla storica etichetta napoletana Phonotype.

Marcello, infine, era il posto dove abitava: un caseggiato popolare di Pomigliano dove si viveva praticamente in comune, con le porte delle abitazioni sempre aperte, in una casa che sembrava un bazar tanto era piena di oggetti, e dove lui aveva funzioni quasi sacerdotali: c’era da comporre una lite? Si chiamava Marcello. Qualcuno non restituiva un debito? Interveniva lui. Ma anche se si rompeva un tubo
dell’acqua nel palazzo o se bisognava avviare una pratica amministrativa, lui veniva subito informato e coinvolto; e la sua parola era la parola del saggio e mai veniva ignorata. Forse è proprio in questo delicato equilibrio tra l’orizzonte della società e il confine della comunità la chiave per comprendere la straordinaria personalità di quest’uomo: mite, buono, sensibile, generoso, empatico, eppure consapevole della sua forza creativa, dell’ascendente che aveva sugli altri. Un ascendente che, a volte, lo spingeva ad esserci: nelle piazze aderendo a istanze politiche di giustizia sociale e di diritti negati o intervenendo a Montevergine per “officiare” le sfilate della costellazione LGBTQ+, in virtù del fatto che presso il santuario di Mamma Schiavona, tradizionalmente, i femminielli si recavano all’alba del 2 febbraio (festa della Candelora). Però, in verità, i “femminielli” napoletani vengono da tutt’altro ambito sociale e culturale, sebbene da più parti si tenti di accreditare forme di continuità e di contiguità culturale ai due fenomeni.
Marcello, in realtà, la “tradizione” l’aveva assorbita davvero, la conosceva bene, era una fucina di proverbi, di canti popolari, di gesti, di movenze, di voci di venditori, di oscure melodie che non si capiva da dove venissero e che probabilmente ricombinava, rielaborava inconsapevolmente: sua, per esempio, la linea melodica della celebre “Vesuvio”, su testo scritto da Luca Castellano, un artista d’avanguardia che, letteralmente, regalò ai Zezi alcuni dei sui versi più belli; sua l’arcana melopea che sembra cantata da Orfeo alla ricerca della sua Euridice, contenuta nella traccia “Ammore nemico” degli Almamegretta (dall’album “Sanacore”, del 1994). Aveva un’incredibile capacità di assorbimento e di restituzione: tutto ciò che entrava nel suo raggio d’azione, lui lo faceva suo assorbendone l’essenza. Vederlo ballare la tammurriata era un’esperienza incredibile: possedeva una leggerezza che lasciava allibiti viste la sua stazza, la sua mole. E non solo la leggerezza:
Marcello aveva quella “ruvida grazia”, quell’essenzialità dell’autentico ballo contadino, fatto di gesti misurati, di movimenti rettilinei, quasi meccanici, che danno la sensazione di essere “antigravitazionali”, come intuì Heinrich Von Kleist nel suo geniale scritto sul teatro delle marionette (1810), dove affermava che le marionette “non conoscono l’inerzia della materia, la qualità che più di tutte si oppone alla danza, in quanto la forza che le solleva in aria è superiore a quella che le incatena alla terra”: esattamente il contrario di quanto ci viene quotidianamente propinato dall’alluvione di consenso di cui ormai gode la cultura di massa, con i suoi diabolici strumenti, sempre pronti a esaltare qualsiasi mediocre sgambettamento televisivo per farne un modello di efficacia comunicativa. E poi la voce, quella voce unica, pastosa, ritmicamente organizzata secondo i moduli del canto popolare campano con fratture del profilo melodico, pause, suoni sporcati e ingolati e con un timbro fortemente nasalizzato e un’incredibile capacità di utilizzare le altre risonanze facciali, quando gli servivano: una voce che, in certi momenti, amalgamando i fonemi in un unico flusso sonoro, rendeva quasi incomprensibili le parole, trasformandosi in un vero e proprio strumento musicale. E poi lo stile esecutivo: mai un ammiccamento, mai un’affettazione, sempre straniato, come vuole la tradizione popolare ad ogni latitudine, ed immune, quindi, da qualsiasi impoverimento, che pure ci sarebbe potuto essere vista la continua contaminazione che Marcello ha sempre cercato con chiunque gli sia capitato nei paraggi. Una voce “rocciosa”, la definirei, una voce che restava sempre se stessa senza lasciarsi influenzare da nessuno ma, viceversa, riuscendo sempre a imporre agli altri il proprio modo di essere. Infine c’era il Marcello suonatore di tammorra: l’enorme tamburo a sonagli che sembrava rimpicciolirsi tra le sue mani e che lui agitava con disinvoltura traendone fuori ritmi serratissimi e variazioni timbriche enfatizzate da effetti spettacolari 
come roteazioni e giravolte.
Ma il momento in cui il mio rapporto con lui si fece molto stretto fu quando ci fu l’ormai celeberrima vicenda del disco con la Real World, una storia che ancora attende una narrazione alternativa a quella ormai “ufficializzata” dai media: una contro-narrazione che mi riprometto di fare in altra sede. Fu in ogni caso con il successo di “Lost Souls (Aneme Perze)”, che comprendeva alcuni brani del repertorio dei Zezi e alcuni brani nuovi per i quali mi fu chiesto di scrivere i testi, che Marcello diventò una star mondiale.
In quel disco la voce di Marcello è esaltata da una produzione prodigiosa e da un mastering effettuato da uno dei tecnici più preparati al mondo, alla faccia di chi la definì, con manifesta incompetenza, “musica agli estrogeni”. E ricordo i momenti nei quali ci confrontavamo sulle parole che scrivevo, le sue osservazioni sulle immagini che usavo, la necessità che sopravveniva talvolta di modificare qualche verso per farlo aderire meglio alla sua resa vocale: collaborare con Marcello è stato bellissimo, perché era una persona che rispettava profondamente il lavoro altrui ed era una fonte incredibile di entusiasmo e, ovviamente, di allegria. Ascoltate, per fare un esempio, il pathos con cui interpreta “Siente munacie’”, cambiando alcune parole
secondo l’estro del momento, aiutando a visualizzare con grande efficacia quello che il testo dice (e cioè la disgregazione della tradizione popolare sotto l’urto della modernizzazione) o la forza espressiva di “Aneme Perze”, con quel suo attacco derivato da una tarantella irpina che sfocia nel canto di Monica Pinto e si conclude con un bellissimo “canto a distesa” che Marcello, come al solito, avrà ripreso chissà da quale oscura fonte e che completava i miei versi dedicati al culto napoletano delle anime del Purgatorio, che all’epoca, studiavo intensamente: sono voci straordinarie, gioiose, liberate… con la forza di chi sente che si sta lanciando nel futuro. Al disco seguì anche un film documentario, “Songs Under A Big Sky", prodotto dalla Real World e dal National Geographic, che girammo tra Napoli e Pomigliano”, e anche quella fu una bellissima esperienza, perché tutto ciò che si faceva con Marcello era sempre molto divertente. 
Credo davvero, comunque, che “Aneme Perze”, insieme ad “Auciello ro mio”, siano le incisioni più belle che Marcello ci ha lasciato e sono fiero e onorato di aver scritto qualcosa che lui non solo ha cantato in 
quell’album ma che, come nel caso di alcuni versi di “Mmiezo ‘a festa”, alternava con quelli delle tradizionali tammurriate quando partecipava alle feste popolari: un risultato, quello di fondersi con le autentiche fonti folkloriche, che è semplicemente straordinario per chi lavora sulla tradizione popolare, come sosteneva Ewan MacColl, il grande folk-singer inglese che per me è sempre stato un punto di riferimento.

Post Scriptum
Il giorno prima di Marcello è morto Bruno Masulli, memoria storica della tradizione vesuviana, archivista e collezionista. Voglio approfittare di questa circostanza per ricordare anche lui: Bruno e Marcello erano molto amici e spesso Bruno era con noi: con Bruno, poi, ho condotto gran parte delle mie ricerche sul campo negli angoli più sperduti della regione e gli sarò sempre grato per avermi aiutato. 
Da quando ho cominciato queste attività ho visto piano piano sparire tutti i protagonisti di una straordinaria stagione culturale, importantissima per l’intera Campania: i grandi suonatori tradizionali dell’Agro nocerino-sarnese e della zona vesuviana, Zi’ Giannino, Zi’ Fedele, Gioacchino Moscariello, Antonio Torre, Giovanni Coffarelli, solo per citarne qualcuno, tra quelli che per tanti anni avevo ammirato nelle feste popolari. E ora ci lasciano due figure straordinarie e che tanto hanno dato a chi, da fuori, veniva a conoscere e vivere la loro realtà. Penso che a volte, quando ci sentiamo dei sopravvissuti, forse lo siamo per davvero.

Giovanni Vacca
Professore di Etnomusicologia, Università di Roma Tre

Le immagini, per gentile concessione dell'autore, provengono dal suo archivio privato e sono tratte da un concerto organizzato da egli stesso il 10 giugno 1997 presso la Scuola Popolare di Musica di Testaccio a Roma. 

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