Signori, questa volta partiamo senza troppi giri di parole: quello di Lucio Corsi è un ritorno in grande. Era, infatti, impresa tutt’altro che facile superare qualitativamente un album eccellente come il precedente “Cosa faremo da grandi?”. Il cantautore maremmano con il nuovo disco “La gente che sogna” ha confezionato nove brani in cui ha costruito progressioni melodiche d’alta classe ed una naïveté letteraria tanto lirica, quanto visionaria, il tutto facendolo sembrare una cosa dalla semplicità disarmante. In apertura troviamo “Radio Mayday” (“Mi è cambiata la realtà/Avevo un paio di occhi in più con lei/E far volare un vecchio cielo/Mi ha tirato ancor più giù, mayday”), scandita da un elegante pianoforte, prontamente elettrizzato dalle incursioni distorte della chitarra e da una sezione ritmica colorata e delirante. A seguire, arriva una delle canzoni più belle di tutto il disco: “Astronave giradisco” (“Nel mondo senza difetti/Dove gli umani erano gli unici assenti/Dove le statue camminavano/ Per stare al passo coi tempi”) giocata su un piano languido, doppiato dalle trame lunari dell’elettronica e dalle aperture sintetiche degli archi. Un luccicante arrangiamento glam-rock caratterizza, invece, “Magia nera” (“Il cielo come un telo mi è caduto addosso/Erano i chiodi per tenerlo su/Ci ricoprono di tagli i sogni infranti/Siamo bambole vudù”), fra piani ostinati, fiati sapor Motown e bassi vorticosi. La title-track (“Un albergo non è altro che il pronto soccorso del sonno/Dove puoi fare tutte le esperienze della vita/ Senza una vittoria e senza una ferita”) ci riporta in una atmosfera più onirica con il piano a sostenere la ritmica, ben dinamizzato da archi ariosi e delle chitarre elettriche. Si prosegue con la splendida “Orme” (“C'è un uomo triste dentro casa/Si tolse la voce al centro del deserto/Imparando dal suo pianoforte a rimanere in silenzio”) retta da una raffinata architettura pianistica, contrappuntata dalle aperture degli archi. Si torna al glam-rock con
“La bocca della verità” (“Io sono uno che muore, ehi, ehi/Che sparisce come tutto il resto, è chiaro/Se sarò polvere, che sia da sparo”), amabilmente naif nella sua strofa in giapponese e impreziosita da chitarre al fulmicotone, fiati e basso a completare l’opera. “Glam party” (“Lo sai che la verità mi mette spavento/ e canzoni migliori sono quelle che inventano/Altre le possibili per stare a galla/Col sole così grande che nel cielo è sia tramonto che alba”) è, evidentemente, programmatica: una batteria a pestare, tiratissima, sul rullante, i fraseggi della chitarra ed i colori camaleontici dei synth ad elettrizzare l’atmosfera. “Danza classica” (“Ma le ombre migliori sono quelle che fa la luna piena/Quando sfugge dalle grinfie della sera/Quando illumina le cose con lo sguardo/Sono anni che nessuno mi trasforma in qualcos'altro”) torna a rallentare i bpm del disco, snodandosi lungo un pianoforte elegantissimo, briosamente allargato dagli archi e, al contempo, perfettamente frastornato dai livori elettrici della chitarra. A chiudere l’album è “Un altro mondo” (“Nel bicchiere di vetro c'è la sofferenza/Per essere quasi nato fantasma/E vede le nuvole più vuote che piene/ Piangendo mischia le sue lacrime all'acqua”), che segue la medesima dinamica: il piano ad orchestrare ritmicamente l’arrangiamento, il basso a lavorare sottotraccia e la carta dell’imprevedibilità affidata ai timbri ronsoniani delle chitarre elettriche. Insomma, questo nuovo disco conferma Lucio Corsi come uno degli autori più riconoscibili degli ultimi dieci anni nella scena cantautorale italiana. Un songwriting brillante unito ad una ricerca musicale unica nel suo genere, con il pregio di rimanere accessibile senza mai scadere nel banale o mostrarsi timoroso di manifestare i suoi riferimenti.
Giuseppe Provenzano
Tags:
Storie di Cantautori