Moonlight Benjamin – Wayo (Ma Case, 2023)

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La sua storia vale la pena di raccontarla ancora: nata nel 1971 a Port-au-Prince, Haiti, dopo la morte di parto della madre un piccolo gruppo di persone la porta all’orfanotrofio gestito dal reverendo Doucet Alvarez. Tra loro anche il padre biologico, sopraffatto dall’aver visto la moglie morire pochi istanti prima della nascita dell’ennesima figlia. Alvarez, colpito dalla vicenda, disse: “Se è rimasta viva, c’è sicuramente un motivo. La chiamerò Moonlight. Una luce che illuminerà il futuro – la adotterò come figlia”. Crescendo in ambiente ecclesiastico, Moonlight si nutre di canti religiosi e inizia a coltivare la passione per il canto. Alla fine degli anni Ottanta diventa corista del cantante haitiano Tinès Salvant. In seguito, decide di esplorare le tradizioni voudou di cui erano seguaci i genitori naturali; canta come corista con nomi noti della musica haitiana, ma nel 2002 lascia l’isola caraibica e approda in Francia per studiare jazz, canto e composizione alla scuola Music’halle di Tolosa. Artista della diaspora, si interroga sulla sua identità afro-franco-caraibica. Cosicché nel 2009 è ad Haiti dove è iniziata come sacerdotessa della religione voodoo. Tornata in Francia, prosegue la sua esperienza artistica. L’incontro con il chitarrista Matthis Pascaud le apre nuove traiettorie sonore di matrice rock e blues che si combinano con testi in creolo. Pubblica “Siltane”  e “Simido”, due album che hanno lasciato il segno, entrambi acclamati dalla critica. E la volta, ora, del suo ‘grido di dolore’: questo il significato di “Wayo” in creolo haitiano. Un album, pubblicato sempre dalla casa di produzione e label di
Tolosa Ma Case, che nelle liriche ricerca significati più profondi, universali: “Trattano il lato filosofico delle cose, il nostro ancoraggio alla terra, la nostra connessione con la fonte”, dice Benjamin, pur non dimenticando di commentare lo spaccato sociale del suo Paese d’origine. La sua vocalità scura e ruvida è sempre al centro e sul palco domina con la sua teatralità incandescente. Le influenze sono tante. da Dr John a Oumou Sangare e fino agli Alabama Shakes. Con Moonlight sono il fido Pascaud alle chitarre e al basso e Raphael Chassin, già alla corte di Salif Keita, alla batteria. Il sostegno vocale lo forniscono Nathalie Loriot e Fabienne Medinat. In più, Alexis Anérilles suona le tastiere in tre brani. Apertura decisa con la title track,  che disegna l’ambientazione dell’intero lavoro. Il tema è caratterizzato da detonanti riff, con innesti vagamente psichedelici e il canto aspro e gli ululati di Moonlight, grido di dolore e invocazione: questa è “Wayo”, in cui si parla di “una persona smarrita che chiede di essere liberata da tutti i pensieri che le impediscono di andare avanti”. Il primo singolo dell’album, “Haut là Haut”,  è lanciato con poche battute di chitarra, basso e batteria, la voce entra invitando a “mantenere vivi i nostri sogni […] Risvegliate i vostri sogni, credete in voi stessi, che diventino un obiettivo e non una fantasia!”. Conserva
il tasso energetico “Taye Banda”, mentre “Ouve lespri” porta un cambio di passo, producendo un setting più impregnato di blues e facendo trasparire un’influenza maliana e versi che incitano ad aprire le nostre menti al mutamento. Dalla densità alle venature afro corali di “Pè” si passa al lento incedere della visionaria “Freedom Fire”, dove l’artista paragona il suo Paese a una casa di paglia che prende fuoco, auspicandone, tuttavia, la salvezza. Su un ritmo scandito e cadenzato “Limyè” non fa mancare una certa orecchiabilità che ben si sposa con la positività espressa dal canto: “Saluta la luce dentro il tuo cuore/ seminala incondizionatamente ovunque”. Il secondo singolo, “Bafon”,  ci riporta a più marcate tinte rock blues e ad Haiti. Una canzone dal forte lirismo: una metafora che evoca la sepoltura del suo Paese, ma che lascia spazio a una dichiarazione di speranza. Dice Moonlight: “Il mio paese d’origine mi attanaglia, e ciò che accade lì non mi lascia senza un pianto. Lo spirito custode dei cimiteri e dei morti, maestro Baron Samedi, dichiara di non avere il via libera del maestro Kafou (una delle figure principali del pantheon haitiano, maestro degli incroci), che si oppone, affermando che Haiti non è morta, che porta ancora la vita in sé!”. Più intima “Lilè”, che incita a cercare l’equilibrio in sé stessi; l’animata possanza ritmica rock di “Alè” va di pari passo con l’appello agli haitiani ad impossessarsi del proprio futuro. Il gran finale lo porta “Pwenn Fè”, motivo che si presenta con un andamento ritmico molto misurato e un disegno armonico che accoglie sembianze afro e illumina ancora una volta la formidabile vocalità della cantante. Un vorticoso carico di energia esplosiva, magnetica e inebriante: questa è Moonlight Benjamin. 


Ciro De Rosa

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