Moonlight Benjamin – Simido (Ma Case, 2020)

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Il suo sguardo intenso, magnetico e fiero campeggia sulla copertina di “Simido”, secondo capitolo discografico di Moonlight Benjamin, cantante e autrice haitiana, residente da tempo a Tolosa; francese è la sua band, guidata da Matthis Pascaud, coautore delle musiche e produttore di un disco che esprime una tiratissima estetica rock-blues a sostegno della voce scura da contralto ma dalle ampie sfumature timbriche. Pascaud suona lap steel e sintetizzatore, Matthieu Vial-Collet è alla chitarra, la sezione ritmica vede Quentin Rochas al basso e Bertrand Noël alla batteria. A due anni di distanza da “Siltane” (2018), debutto fulminante dell’artista nativa di Port-au-Prince, lo scenario di miscela di liriche in creolo della sacerdotessa voodoo’n’roll si sostanzia in un altro album di marcata energia sonora, i cui testi abbracciano temi sociali, riflessioni sull’ambiente e sulla miseria del presente dell’isola caraibica, sempre ammantate di richiami alla religiosità popolare haitiana. Partono forte con “Nap Chape”, vincente nel riff irresistibile della chitarra e scandita da un ritmo implacabile: è il primo singolo dell’album, dove Benjamin denuncia la classe dominante haitiana cui rivolge una serie di domande incalzanti. Di certo sarà un highlight sul palco, dove Moonlight possiede forte presenza scenica. Segue l’altrettanto tonica “Ki Nouvèl”, in cui si manifesta il dolore per la lontananza dal proprio paese. Il groove sale ancora nell’ipnotica, ribollente e ossessiva “Salwé”, tributo alla natura e alla terra-madre. Procedendo oltre, se “Pale Pawòl” mette alla berlina le chiacchiere insignificanti con liriche in un creolo molto colorito, il clima hard-blues di “Tchoule” racconta metaforicamente l’incapacità di agire per il vero cambiamento. Su un tempo medio che comunque invita alla danza il titolo guida canta la speranza e la liberazione: “Simido” è un nome proprio ma è anche colui che guida i canti nelle cerimonie voodoo. Le chitarre acuminate di “Pasay” fanno da contorno all’invocazione agli spiriti e agli angeli chiamati ad aiutare il popolo di Haiti; la tensione sembra ammorbidirsi diventa introspettiva nella riflessione sulla diaspora proposta in “Pye Poudre”, per poi subito addensarsi e scurirsi in “Belekou”, in cui la cantante ritrae la vita del quartiere di Port-au-Prince in mano alle gang. Ancora una volta un’immagine presa dalla vita reale diventa simbolo della scarsa solidarietà nella società haitiana: il distretto della capitale finisce per rappresentare il paese intero: una giungla dove piove a dirotto ovunque, sia tra gli affamati e che tra i rapaci. Nel brano di commiato, “Kafou,” la religione sincretica isolana risuona nell’omaggio allo spirito dei crocicchi (Kafou per l’appunto, ma ancora si rivela una metafora che sottolinea per quei momenti in cui occorre fare delle scelte), tra chitarre rock e una poliritmia che rinsalda i legami con la discendenza afro-caraibica. Cosa accadrà nel “terzo difficile album” lo vedremo, nel frattempo, solido e cosciente, “Simido” convalida il carisma di Moonlight Benjamin: play it loud! 



Ciro De Rosa

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