#BF-CHOICE
Abbiamo intervistato il quartetto piemontese per farci raccontare questo nuovo ed appassionante lavoro. (S.E.)
Come arrivate a questo nuovo, il famigerato, difficile terzo album, “Meuseucca servadze”?
Fabrizio Carletto - Dall’esperienza del secondo volume e da un anno di frequentazione musicale con Tatè. Un pelo più maturi e liberi nel muoverci nell’architettura di Teres Aoutes String Band. Ognuno ha usato meglio il proprio terreno per far fruttare al meglio il proprio strumento. Siamo sicuramente più efficaci, perché ci si conosce, musicalmente, di più. Il fatto di aver potuto seguire personalmente quasi tutte le registrazioni poi, ha permesso che tutto fosse ben a fuoco.
Diana Imbrea - Come dice Fabrizio, ci stiamo conoscendo a livello musicale sempre di più. Il terzo album ci rappresenta appieno, avendo avuto anche la fortuna di poterci lavorare più a lungo.
Come nasce la collaborazione con Tatè Nsongan?
Mario Poletti - L’incontro con Tatè è avvenuto qualche anno fa alla Jazz School Torino, l’idea di provare a vedere cosa sarebbe successo suonando con lui è piaciuta a tutti, Tatè si è inserito in modo spontaneo e naturale e il risultato, sia live che registrato, ci soddisfa molto.
Come funziona la creazione di un brano della Teres Aoutes String Band?
Fabrizio Carletto - Mario propone normalmente degli abbozzi o brani nelle nostre prove. Cerchiamo di dare una connotazione sonora definita e poi si studia il testo a quattro mani. A volte capita che si parta da un soggetto di Mario ed io lo svolga confrontandomi con lui, a volte l’opposto quindi un pezzo già strutturato e con solo alcune modifiche e/o implementazioni date da me. È un confronto e una collaborazione totale ed è molto divertente e produttiva.
Diana Imbrea - C’è un momento, tra l’idea del brano e la sua incisione, dove tutto può succedere. E se il brano funziona, rimane molto vicino all’idea originale. La tonalità, il ritmo scelto, le strofe, sembrano tutti elementi che calzano quell'idea in modo naturale. È affascinante il processo di creazione, spesso ci raccontiamo storie che magicamente Mario e Fabrizio fanno diventare canzoni.
Oreste Garello - Per me, che non sono tra gli autori dei brani, significa inizialmente ascoltare Mario che ci suona il nuovo pezzo a casa sua al mandolino, cantando le parole scritte o tradotte da Fabrizio. In genere succede davanti ad un piatto di pasta, dei formaggi e del vino. Subito dopo la proviamo assieme, informalmente, per capire lo spirito del brano. Poi ci sono i classici compiti a casa: una fase di elaborazione libera dei riff, delle ritmiche, dei suoni… Questo disco è stato testato a lungo dal vivo, quindi molte parti si sono modificate nel tempo, davanti al pubblico. Infine, ce la siamo presa comoda nella fase di registrazione: per ogni canzone Fabrizio ha registrato una gran quantità di tracce e di idee, che poi ha selezionato ottenendo un risultato ancora differente. Rispetto ai precedenti, in questo disco abbiamo dato più spazio e prestato più attenzione alle armonie vocali, e siamo contenti dei risultati.
È un disco plurilingue…
Fabrizio Carletto - Sì, c’è il franco provenzale, che è la lingua di Mario, e l’occitano parlato nel mio paese, Vernante (Cn).
Mario Poletti - E il piemontese de “La Bergera”, ma anche inserti in italiano. Negli altri album, c’era anche il francese, ma nelle zone di confine da cui proveniamo il plurilinguismo è un fatto, derivato da necessità storiche.
Oreste Garello - In genere sono io che mi occupo delle traduzioni dei brani per i diversamente piemontesi, ma non è facile nemmeno per me, che sono di Torino. Devo sempre chiedere spiegazioni, a Mario per il valdostano e a Fabrizio per il vernantino, su alcune parole che mi suonano nuove. Nella prima canzone, per esempio, si parla di “bacias” (tinozza, secchio) per indicare il mare: secondo me questa parola rivela molto dello spirito pratico, ironico, obbediente per forza, ma anche critico verso il potere, di chi abita le montagne ed è costretto a confrontarsi con i pericoli di mondo sconosciuto.
Quali le fonti delle storie che raccontate?
Fabrizio Carletto - Sono testi con forte radicamento storico oppure che partono dalla storia o da fatti per poi svilupparsi in maniera “autonoma”.
Mario Poletti - Molte sono piccole storie di paese che però a volte si sono incrociate con la storia più grande, come quella di Pierrine Vauthier, una ragazzina che dopo la prima guerra mondiale parte dal suo villaggio di montagna per andare a lavorare a Parigi, lì viene a contatto con il movimento anarchico,
diventa una militante e va a combattere per la repubblica durante la guerra civile in Spagna o quella dei Soldat de la neige che per più di un secolo tennero aperto, estate e inverno, il valico del Gran San Bernardo soccorrendo e aiutando i viaggiatori, che abbiamo raccontato in precedenti brani.
Cosa vi porta ad adottare una storia costruendoci sopra una canzone?
Fabrizio Carletto - La scintilla che scatta e ci fa pensare che questo fatto possa avere una sua valenza come compendio alla musica.
La prima è quella del reggimento Carignano…
Mario Poletti - Me ne ha parlato mio figlio più grande, appassionato studente di storia, scoprire che nell’epopea dell’Ultimo dei Mohicani c’erano dei soldati piemontesi che, a servizio del Re di Francia, combattevano gli Irochesi nel Quebec, ci è sembrata una bella storia da raccontare.
Poi c’è il falsario valdostano…
Mario Poletti - Joseph Samuel Farinet, il Robin Hood delle Alpi, quasi un eroe nazionale nel Vallese svizzero ma poco conosciuto in Valle d’Aosta, suo paese di nascita, e in Italia, una storia epica e romantica che, partendo da un piccolo villaggio di montagna, arriva, coinvolgendo personaggi come Gilbert Bécaud, Leo Ferrè e altri, fino al Dalai Lama: come non raccontarla. Ne è venuta fuori una specie di Hurricane, ma
La title track è una dichiarazione di intenti?
Mario Poletti - “Meuseucca servadze”, è una bourrée a tre tempi. Essendoci un circuito di folk da ascolto più ridotto rispetto a quello da ballo tutte le nostre canzoni sono fatte su strutture di danze: è un limite ma anche uno stimolo. La canzone parla di come, secondo noi, dovrebbe essere questo tipo di musica, selvatica e grezza, come la gente e i luoghi da cui proviene
Ma è proprio così, non c’è un circuito d’ascolto dalle vostre parti? Come lo spieghi?
Fabrizio Carletto - Certe occasioni ci sono, penso al festival Occit’amo di Saluzzo, ad esempio, ma sta anche a noi musicisti cercare di portare, oltre ai balli anche il verbo. Una cosa non esclude l’altra.
Oltre ai fanti, scherzate pure con i santi… che origine ha questo santo fannullone?
Mario Poletti - Tra le mie letture giovanili un libro che mi ha colpito molto è stato “Il diritto all’ozio” di Paul Lafargue, il curatore della mia edizione, che ancora possiedo, ha inserito tra le appendici il racconto della festa di San Fannullone a La Napoule, in Francia, ci ha stimolato l’idea di questo santo che è pigro e
non ha voglia di fare miracoli o altro e che, guardando dall’alto con indignazione e incomprensione l’affannarsi dell’umanità alla fine sbotta, e abbiamo voluto omaggiarlo.
C’è spazio per riflessioni sull’oggi, a tempo di danza…
Mario Poletti - Anche se come punto di riferimento abbiamo il patrimonio tradizionale delle nostre parti, siamo comunque calati in una realtà contemporanea che inevitabilmente si riflette tanto nella nostra musica quanto nel contenuto dei testi.
E sull’amore filiale…
Mario Poletti - Come sopra, raccontiamo storie successe e/o facciamo considerazioni sulla nostra quotidianità, anche per questo brano Bob Dylan e la sua “Forever young” non sono esenti da responsabilità.
Oreste Garello - La mazurka lenta è un ballo da innamorati. Qui è perfetta per un altro tipo di amore, quello che dice al figlio che prima o poi deve volare via. Ma vai tranquillo, che restiamo tutti un po' bambini sempre.
L’unico tradizionale, cantato in piemontese è la ballata “La bergera”
Mario Poletti - “La Bergera” ci è sempre piaciuta, la bella pastorella che rifiuta le avances del francese che cerca di sedurla con le sue ricchezze perché lei ha il suo pastore che la fa ballare, ci sembra paradigmatica di una visione di vita decisamente attuale, anche questa l'abbiamo trasformata in un ballo, una scottisch.
L'arrangiamento nasce da un'intenzione funky dance, alla Nile Rodgers, di cui sono un ammiratore, che con il contributo di tutti è diventata la versione che c'è sul cd e che presentiamo live.
Un altro inno ai musicisti è “Ma chansun”, di che parla?
Mario Poletti - In realtà è un brano autobiografico, due strofe dove racconto un po’ di me, che comunque faccio il musicista …
Oreste Garello - I musicisti, anche più degli altri artisti, hanno il privilegio di poter parlare del loro lavoro nel momento preciso in cui lavorano. Le parole di questa canzone rappresentano esattamente, proprio mentre vengono cantate, il mondo del cantante. Tutte le volte che la suoniamo dal vivo, la gente sembra ricevere subito questo messaggio, sembra molto coinvolta anche se forse non capisce tutte le parole! C'è un legame profondo col pubblico, con questo brano.
Dove arriverà la vostra musica selvaggia?
Fabrizio Carletto - come spesso dico si ha successo se qualcosa è successo. Qualcosa succede e sta succedendo, quindi la musica selvaggia esiste e piace. Noi continueremo sempre a farla, perché è la nostra musica.
Mario Poletti - Si ha successo se è successo, non la conoscevo ma mi piace, sottoscrivo.
Diana Imbrea - La nostra musica può arrivare ovunque, noi la suoniamo con orgoglio e passione e come una creazione da proteggere avremo cura di portarla alle persone.
Ciro De Rosa
Teres Aoutes String Band feat. Tatè Nsongan – Meuseucca Servadze (Cromo Music, 2022)
Sono trascorsi poco meno di due anni dalla pubblicazione del pregevole “Courenta & Cadillac” e la Teres Aoutes String Band giunge puntuale all’appuntamento con il terzo album con “Meuseucca Servadze”, concepito sin dall’estate del 2021 e, nato dalla collaborazione con il percussionista Tatè Nsongan, tra i fondatori dei torinesi Mau Mau. Come lascia intendere il titolo, che in lingua franco provenzale vuol dire musica selvaggia, il disco ha preso vita in modo spontaneo dal continuo confronto tra i quattro strumentisti che, partendo dai rispettivi background musicali, hanno proseguito il loro cammino nell’ampliare sempre di più il raggio delle loro ricerche sonore sugli strumenti a corde. Rispetto ai precedenti, infatti, si coglie un suono ancor più ricco e corposo con le tessiture melodiche delle corde, esaltate nelle timbriche come dall’incontro con le percussioni di Nsongan che, ben lungi dall’essere un esotismo fine a sé stesse, si integrano in modo funzionale dei brani nelle cui strutture ben riconoscibili sono gli addentellati con le danze e i balli tradizionali delle valli piemontesi. L’ascolto regala una ondata di buone vibrazioni, ma anche tante storie ora curiose, ora da ricordare come nel caso dell’iniziale “Mi sun del Carignan” a cui è affidato il racconto delle vicende di un soldato piemontese che si ritrova a combattere gli Irochesi in Québec sotto le insegne del re di Francia. Si prosegue la trascinante “Scottisch nuovo anno” la cui linea melodica è guidata dalle corde di Poletti e Garello e sostenuta dalle percussioni di Nsongan e dal basso di Carletto su cui si inserisce il violino di Diana Imbrea ad impreziosire il tutto. Le corde del violino e quelle del mandolino sono protagoniste della title-track, una bourrée a tre tempi in chiaroscuro giocata su una elegante tessitura melodica, mentre “Courenta Ottimista” è un invito al ballo ma anche l’occasione per riflettere sulle conseguenze che la pandemia ha avuto per i musicisti, costretti a non suonare per molti mesi. La melodia sinuosa ed appassionata di “Valzer dell'amore” ci introduce a “Ma chansun”, un an dro con echi reggae, a cui è affidata una riflessione sulla vita in continuo movimento dei musicisti. A metà strada tra Appalachi e le valli piemontesi c’è, poi, la scorribanda sonora de “En tren che pasa” che ci introduce al vertice del disco con lo storytelling di “San Fagnan”, ispirata al pamphlet di Paul Lafargue “Il diritto all'ozio” del 1880 e a cui è affidato il ritratto del santo fannullone poco propenso ad aiutare i poveri ed ispirato. Tutta da ascoltare è poi “Viva Farinet” nella quale scopriamo la storia del Robin Hood delle Alpi, il falsario Joseph Samuel Farinet esperto nel conio di monete false da donare i poveri. La bella rilettura del tradizionale piemontese “La Bergera” ci conduce al finale con la corale “Bala Ghitina” e la toccante ballata “Ohi me bel fij” dedicata all’amore per i figli. Insomma, “Meuseucca Servadze” è un disco da ascoltare dall’inizio alla fine per coglierne le storie, i ritratti, le riflessioni, ma anche per godere a pieno di tutte le brillanti soluzioni melodiche e ritmiche confezionate dalla formazione piemontese. Assolutamente consigliato!
Salvatore Esposito