Abbiamo seguito il percorso artistico della Teres Aoutes String Band dai primi demo, al loro disco di debutto “Lo rock’n roll de la mountagna” del 2018 e, sin da subito, ci aveva colpito la scelta in controtendenza di esplorare le potenzialità espressive degli strumenti a corde, partendo dal dialogo tra la tradizione musicale delle Valli Occitane e più in generale del Piemonte con i suoni della roots music americana. Partendo da backgound artistici differenti, i quattro strumentist si sono pian piano addentrati in una ricerca musicale sempre più approfondita sulle peculiarità timbriche dei rispettivi strumenti, andando a comporre un mosaico sonoro nel quale tradizione ed innovazione, vanno di pari passo con la sperimentazione, senza disdegnare inattese deviazioni di percorso. Insomma, una scommessa non da poco che il quartetto ha vinto a man bassa, raccogliendo unanimi consensi e soprattutto facendo numerosi concerti. A distanza di due anni dall’esordio, li ritroviamo con “Courenta & Cadillac” album che raccoglie undici brani che ampliano il raggio delle loro ricerche sonore ed affina la loro cifra stilistica, approdando ad un suono ancor più originale e maturo, frutto di un labor lime artigianale e tutto giocato sulle corde del mandolino e della mandola di Mario Poletti, del violino di Diana Imbrea e della chitarra di Oreste Garello, magistralmente supportato dalle architetture ritmiche del basso e del contrabbasso di Fabrizio Carletto. Ad impreziosire il tutto c’è la leggerezza e l’energia delle musiche da ballo occitane che diventa centrale nei loro imperdibili live act. Nel corso di una recente #FoolkNight abbiamo intervistato il quartetto piemontese per farci raccontare questo nuovo lavoro, soffermandoci sulla sua gestazione, le influenze musicali che lo caratterizzano e l'approccio competitivo.
Ciro De Rosa - Come arrivate all’intreccio tra la tradizione musicale delle Valli Occitane Piemontesi e la roots music? Ci potete raccontare il vostro background musicale…
Mario Poletti - Quando mi è venuta l'idea - che, poi, ho condiviso con Fabrizio - di mettere su questa string-band non c'era ancora la coscienza di come si sarebbe potuta evolvere. In realtà, dal mio punto di vista, diventata è una sorta di autobiografia, perché in quello che suoniamo converge tutto quello che ascoltavo da ragazzo. Sono nato e cresciuto in Val d'Aosta a contatto con la musica tradizionale ascoltata nei festival, nelle fiere e nelle varie fese patronali, ma nel contempo ascoltavo la musica della mia generazione, tutto il rock possibile ed immaginabile. Adesso con l’età e con una certa maturità e consapevolezza c’è stato questo tentativo di mettere tutto insieme e ci piace quello che facciamo.
Fabrizio Carletto - Io vengo da una valle in cui c’è molta musica tradizionale, ma sono in una posizione piuttosto bizzarre perché posso abbeverarmi direttamente alla fonte delle radici popolari ma suono strumenti come il basso e il contrabbasso che non appartengono a questo mondo. Questa musica, però, l’ho sempre masticata, l'ho sempre accompagnata e questo perché non ho mai avuto questa idea di musica da museo, ma ho sempre pensato che la tradizione sia una cosa viva. Il mio paese Vernante la vede un po’ così perché per loro non è stato un problema ballare “Courenta Blues” o “Courenta Carletta” con bizzarre melodie perché la tradizione è qualcosa di vivo e se non si conosce il passato non si può andare verso il futuro. Noi conosciamo il passato e speriamo di fare tanta musica che parte da un passato ma che ha molto futuro senza bisogno di musei.
Diana Imbrea - Per quanto mi riguarda io arrivo da un percorso in ambito classico, ho studiato violino ma per me è sempre stato sempre fondamentale essere a contatto con la musica folk, la musica del popolo. E’ per questo che mi sono trovata subito bene con la Teres Aoutes String Band con i componenti perché mi hanno proposto un repertorio che incontrava proprio la mia esigenza che è quella di più suonare per far ballare. Suonare principalmente per far divertire il pubblico nelle feste, dovunque siano. Io, tra l’altro, arrivo dalla Romania che ha una tradizione musicale in larga parte basata su musiche da festa e, dunque, non poteva esserci modo migliore per proseguire questo cammino.
Oreste Garello - Rispetto a loro che sono nati nelle valli dove c’è tanta musica tradizionale, io sono nato in città, a Torino, e non ho avuto la possibilità di entrare in contatto con il mondo popolare. Lo sto facendo, però, adesso e il fatto di impararla adesso mi consente di aggiungere un altro elemento, i miei ascolti, il mio rock, il mio blues e mi diverto come un matto.
Mario Poletti - Lo abbiamo rubato agli ZZ Top. (ride)
Oreste Garello - Ho fatto domanda ma ancora non mi hanno risposto.
Salvatore Esposito - Diana, a proposito delle tue origini rumene. In che misura la tradizione musicale balcanica ha influenzato il tuo approccio stilistico, il tuo approccio alla musica popolare italiana e alla creazione di brani di nuova composizione del gruppo?
Diana Imbrea - E’ stata fondamentale dal punto di vista dell’improvvisazione perché nella musica classica si rispetta lo spartito e lo si interpreta, restando connessi alla musica scritta da qualcun altro. La musica tradizionale essendo trasmessa per via orale richiede che il musicista vi aggiunga del proprio improvvisando. Questo mi ha aiutato anche nell’approccio al folk italiano dove c’è una buona componente di improvvisazione e questo mi consente di sentirmi molto libera. E’ fondamentale, anche quando suono musica classica, avere quello spazio dove poter esprimermi in libertà. Oltre dal punto di vista tecnico, ci sono i glissandi, le acciaccature che sono una sorta di fiorellini, delle decorazioni musicali che ogni tanto applico anche nel folk.
Daniele Cestellini - Tutto il disco è caratterizzato da una visione molto aperta ed internazionale del folk, un approccio senza barriere nel quale confluisce la roots music americana come la musica da ballo occitana. Quali sono i brani che secondo voi rappresentano meglio questo lavoro in relazione anche ai repertori a cui vi siete ispirati?
Mario Poletti - Per noi sono tutti rappresentativi, ma posso dire che ci è spiaciuto escluderne tre o quattro ma solo perché per una questione di età siamo abituati ad un minutaggio da Lp dei dischi. Dal punto di vista musicale sono brani diversi ed è difficile dire quale sia il più rappresentativo. Un po’ abbiamo la traccia del primo album, mettendoci una cover. Non abbiamo inserito brani tradizionali ma abbiamo scritto tutto noi. Il disco mi piace nella sua completezza.
Diana Imbrea - Il titolo del disco è “Courenta & Cadillac” e lo abbiamo scelto sia per la copertina sia perché era un brano molto fresco anche dal punto di vista della scrittura. Tutto è nato però con “Courenta en blues”, il brano che apre il disco…
Mario Poletti - “Courenta en blues” è il brano che esprime un po’ lo spirito del gruppo perché la courenta della Val Vermenagna, dove abita Fabrizio e che frequentiamo di più, ha una struttura di ventiquattro battute, il blues ha una struttura di dodici battute e non abbiamo fatto altro che prendere la progressione del blues e raddoppiarla su un ritmo di courenta. Poi c’è il testo in cui raccontiamo una storia un po’ fantasiosa.
Salvatore Esposito - Dal punto di vista musicale quali sono gli ascolti e i riferimenti di matrice roots rock che caratterizzano il vostro approccio stilistico…
Fabrizio Carletto - Un disco che abbiamo ascoltato molto tutti e quattro e nel quale ci ho lasciato parte del cuore e delle orecchie è l’ultimo di Ry Cooder. Abbiamo cercato di avvicinarci quel suono non copiandolo ma interpretandolo alla nostra maniera. Potrei anche dire tutti gli ultimi dischi di Ry Cooder perché sono lavori che suonano in maniera spaventosamente bella e a cuore aperto. La nostra idea era quella di dare vita ad un sound che fosse curato ma nello stesso tempo non lisciato.
Ciro De Rosa - Nella scelta del vostro nome c’è una dichiarazione di intenti che vi porta lontano dagli strumenti tipici della tradizione musicale delle Valli Occitane. Questo ha rappresentato un limite per voi?
Mario Poletti - La scelta di strumenti utilizzare solo strumenti a corda è stata ben precisa e fatta in partenza perché adoro questo tipo di suono. Se qualcuno vuole una musica fatta con la ghironda o con l’organetto può rivolgersi altrove. Non utilizzare gli strumenti diatonici è stata una scelta specifica perché prediligevamo quelli cromatici e che ci permette di addentrarci in altre atmosfere e in territori musicali differenti.
Ciro De Rosa - Quali sono le storie alla base delle vostre canzoni?
Mario Poletti - Sono storie che arrivano da dove abitiamo dalle valli. Ci sono un paio di canzoni d’amore a volte autoreferenziali, a volte no. Sono storie della realtà che ci circonda del passato, del presente e qualcosa del futuro. In particolare mi piace citare “De la neige sen soldà” uno dei due brani in franco-provenzale che racconta una storia bellissima. Il brano narra le vicende dei "Soldats de la Neige", un gruppo di ragazzi che abitavano nei villaggi di Saint-Rhémy e di Bosses, sul valico del Gran San Bernardo che nel 1627 furono esonerati dal servizio militare dal Duca Carlo Emanuele I per permettere loro di continuare la loro attività di soccorso in favore di chi doveva superare le Alpi. Salvarano tante vite, armati solo di un bastone da montagna e tenevano aperta la frontiera tutto l’anno. Tutto questo è emblematico in un epoca come la nostra dove si vuole chiudere le frontiere e abbandonare in mare la gente.
Salvatore Esposito - E poi c’è “Cuntent Cuma en giari” la vostra riscrittura di “Get Lucky” dei Daft Punk. Com’è nata questa idea geniale?
Mario Poletti - Anche lì ci siamo detti: facciamo una cover? “Get Lucky” non era male e potevamo trasformarla in una bourèe. Ho chiesto a Fabrizio di adattarci un testo. Ci abbiamo aggiunto un tema e una melodia, abbiamo un po’ cambiato il tempo ed eccola qua. Non siamo gente che riflette molto e progetta. Seguiamo quello che ci dice il nostro istinto.
Diana Imbrea - Spesso attacchiamo un accordo e ci accorgiamo che ci porta in una direzione e in questo caso ci ha portato verso “Get Lucky”. Poi ci abbiamo messo un testo ed è venuto qualcosa di bello.
Mario Poletti - Avevamo tentato prima con “Because The Night” che non era male neppure quella. Avevamo pensato anche a qualcosa di Woody Guthrie ma poi è venuta fuori quella…
Daniele Cestellini - Tornando a Ry Coorder, soprattutto negli ultimi dischi, ha lavorato per sottrazione lavorando molto sulle corde e suoi suoni dei pochi strumenti che intervengono nei vari brani. Nel vostro disco si avverte un approccio simile agli arrangiamenti…
Mario Poletti - La tradizione delle string band è tipicamente americana anche se in realtà noi ci rifacciamo anche a quelle che erano le orchestre madolinistiche e ai circoli mandolinistici. A proposito della scelta degli strumenti, penso che il nostro suono sia ancora più antico rispetto a quello di un gruppo che suona l’organetto o la fisarmonica che sono più moderni rispetto a quelli a corde. Vengono pensati come maggiormente legati alla tradizione ma compaiono ad inizio Novecento, mentre quelli che usiamo noi esistono già da inizio Seicento. Insomma essere roots, ma ancora più roots.
Fabrizio Carletto - Il suono è molto nostro, siamo riusciti a focalizzarlo maggiormente rispetto al primo disco. Non c’è stata una scelta a tavolino di metterci a fare i Ry Cooder, ma è stato qualcosa che ci è venuto molto naturale sia per ascolti musicali che per il tipo di brani.
Se si ascolta “Do Re Mi” di Woody Guthrie non è molto differente da una polka che possiamo suonare noi. Diciamo che c’è stato un avvicinarsi alla stessa fonte naturale e su certe finezze in studio abbiamo preso ispirazione dal lavoro di Ry Cooder perché ha un bacino straordinario di gemme preziose. Ry Cooder ci è venuto in mente quando abbiamo preparato la cartella stampa del disco, ma perché a furia di ascoltarlo ci è entrato dento quasi inconsapevolmente.
Mario Poletti - La scelta delle corde è stata determinata anche dal fatto che personalmente sono un grande ammiratore di Bill Frisell di cui penso di conoscere tutta la sua discografia e che, attualmente, è il più grande orchestratore di corde. Ni piace ascoltarlo e ammiro molto il suo lavoro.
Oreste Garello - C’è stata anche una parte, secondo me, un po’ di gioco perché venivo a casa tua registrare e portavo tre o quattro chitarre per volta. E ci chiedevamo: questo come lo facciamo? Stavolta usiamo la chitarra classica? Nulla è stato fatto a tavolino, facevamo una base e poi vedevamo cosa ci stava bene. Solitamente era, quasi sempre, buona la prima idea. Dietro la costruzione di questo disco c’è anche questo aspetto leggero. Il lavoro di pensiero è stato fatto dopo in fase di mixaggio dei suoni. Ci siamo fatti prendere dalle decisioni, l’idea era chiara ma abbiamo fatto molte prove, abbiamo suonato tanto e anche i provini fatti da me sono molto simili al disco.
Daniele Cestellini - Tra i vari brani, sin dal primo ascolto, mi ha colpito molto “Sem sunadur” la cui melodia è molto accattivante…
Mario Poletti - “Sem sunadur” è una bourrèe a tre tempi. Quando scrivo parte tutto dalla melodia. Il testo ce l'avevo già in mente dal punto di vista dell’argomento da trattare e alla fine, con l’aiuto di Fabrizio che mi ha aiutato a scrivere in vernantino, è venuto fuori questo omaggio ai musicisti. “Sem sunadur” vuol dire siamo suonatori. Nell’ultima strofa ci ho messo anche la domanda che ci fanno spesso chiedendoci che lavoro facciamo. La dignità del lavoro di musicista soprattutto in Italia si scontra sempre con questa questo immaginario.
Oreste Garello - Siamo stati profetici considerando che di contributi ai musicisti ne sono stati dati pochissimo.
Diana Imbrea - Questo è il brano che ci ha fatto cantare di più in coro. Personalmente, in questo album canto molto di più del precedente e anche Oreste canta molto spesso. Quindi “Sem sunadur” per dire anche che ci sentiamo così musicisti che abbiamo avuto l’esigenza di cantarlo tutti insieme.
Salvatore Esposito - Prima è emerso che dal disco sono rimasti fuori alcuni brani. La curiosità è però quella di capire come si articola il vostro repertorio dal vivo abbraccia i brani dei due dischi o è integrato da altro materiale?
Mario Poletti - Dipende dalla situazione quando suoniamo dove la gente abituata più a ballare, inseriamo anche brani tradizionali più ballabili rispetto a quelli nostri che pure hanno una matrice coreutica ma escono dal seminato. Quando suoniamo fuori dalle Valli facciamo il nostro repertorio.
Oreste Garello - Anche i brani tradizionali li abbiamo trattati secondo il nostro stile e ci siamo presi delle libertà melodiche. Nulla che comporti problemi, però non rendono la vita facile al musicista.
Diana Imbrea - Abbiamo anche altri brani in repertorio che ogni tanto tiriamo fuori perché siamo soprattutto animali da palcoscenico. Quando vediamo che piace un certo brano lo eseguiamo molto volentieri e invece per quanto riguarda i nostri dischi, ovviamente, facciamo una selezione. Spesso suoniamo anche brani nuovi per sperimentarli sul palco e poi valutiamo se registrarli o meno.
Oreste Garello - Durante la quarantena ci è capitato anche di incidere due pezzi mentre eravamo ognuno a casa propria. Io sono particolarmente contento di questi due brani “Bella Ciao” che abbiamo inciso per il 25 Aprile e “Pane e Rose” per il Primo Maggio. Li abbiamo incisi senza vederci e questo dimostra che le nostre dinamiche e i nostri suoni sono venuti bene anche così. Erano pezzi che nemmeno avevamo provato prima. Sono venuti veramente bene e sono persino da ballo.
Fabrizio Carletto - Una delle decisioni furbe della mia carriera è stata quella di finire di assemblare il mio studio di registrazione privato prima del Lockdown e il primo mese e mezzo l’ho vissuto là dentro.
Salvatore Esposito – Concludendo. Qual è il vostro rapporto con il pubblico sul palco?
Mario Poletti - Fare i dischi ci piace tanto ma suonare sul palco ancora di più e in questo periodo ci è mancato molto. Ritrovarsi prima per le prove, il soundcheck, gli amici che vengono a vederti, tirare tardi dopo il concerti. A noi piace molto divertirci.
Teres Aoutes String Band – Courenta & Cadillac (WMusic/iCompany, 2020)
La scritta “Musica artigianale” stampigliata nel retro copertina è da sempre il manifesto programmatico della Teres Aoutes String Band, quartetto di sole corde che ha cristallizzato il proprio marchio di fabbrica nell’approccio non convenzionale alla tradizione musicale delle Valli Occitane, facendo dialogare la tradizione musicale valligiana con i suoni della roots music americana. Rifuggendo con attenzione la facile tentazione di cadere nelle trappole di una visione museale della musica popolare, il gruppo piemontese ha approcciato le melodie legate alle forme coreutiche occitane con un pizzico di sfrontatezza e, intrecciandole con blues e country, le ha proiettate verso il futuro, cristallizzando una originale cifra stilistica. Tutto questo che appariva già in nuce nel debutto “Lo Rock’n Roll De La Mountagna” si è fatto ancor più incisivo in questo nuovo lavoro che amplia il raggio delle loro esplorazioni sonore addentrandosi anche in ambiti sonori inusuali. Composto da dieci bani originali ed una riscrittura, il disco si svela in tutta la sua portata accattivante sin dalle prime note di “Courenta en blues”, una courenta della Val Vermenagna declinata in salsa country-blues che sembra uscire da un disco di Hank Williams. La storia dei soldati della neve, che aiutavano i viaggiatori ad attraversare il pericoloso valico del Gran San Bernardo, cantata nel chapelloise “De la neige sen soldà” ci introduce alla bella sequenza di canzoni d’amore con la polka “Ti t’ses la pi bela” e la mazurka “L’amour”, nelle quali si apprezza l’eleganza dell’interplay tra chitarra, mandolino e violino. Il ritmo si fa più intenso e si torna a ballare con la trascinante title-track, un irresistibile balét che idealmente unisce Occitania e Stati Uniti, ma il vertice del disco arriva con la geniale riscrittura di “Get Lucky” dei Daft Punk che qui diventa una bourreè a due tempi con il titolo di “Cuntent Cuma en giari” con il mandolino di Mario Poletti a guidare la melodia in cui si inserisce il violino di Diana Imbrea. Il gustoso circle strumentale “Soul Freire” ci introduce prima al rondeau “Parlapà” che intreccia italiano e piemonese e, poi, al brillante scottish “Gente di su” che descrive la vita su in montagna circondanti dalla bellezza ma anche alle prese con problemi come il freddo dell’inverno. Gli echi country-western del rigodon “La nite des sourchires” ci schiudono le porte alla bourrèe a tre tempi “Sem Sunadur” nella quale la Teres Aoutes String Band racconta a cuore aperto la vita di musicisti, ma sarebbe meglio dire suonatori, sempre impegnati a fare musica per divertire e far ballare. Insomma, “Courenta & Cadillac” è un lavoro pieno di belle intuizioni e conferma tutta la bontà di questo progetto. Siamo certi che, nel prossimo futuro, il quartetto piemontese ci regalerà altre sorprese.
Salvatore Esposito
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