C’è ancora un alone di mistero intorno alla prematura morte di Leonardo Vinci, importantissimo esponente della scuola operistica napoletana nato a Strongoli in Calabria nel 1696 (?) e morto a Napoli nel 1730. Pare sia stato avvelenato ed è questo lo spunto iniziale del libro che ci dà l’occasione di questo scritto: ‘Il cold case di Leonardo Vinci’, edito da Publigrafic. Ovviamente, quello di trovare un possibile colpevole e risolvere così il caso è solo un pretesto per poter parlare di questo grande compositore che, sempre e da sempre, paga lo scotto di una quasi omonimia con l’italico genio. Il corpus musicale lasciato da Vinci, ancora da completare, è cospicuo nonostante la sua breve esistenza: musica sacra, strumentale ma soprattutto opere liriche, inizialmente intermezzi comici e commedie musicali e poi finalmente opere serie, molte delle quali vantano il libretto di Pietro Metastasio, suo amico e stretto collaboratore, come viene evidenziato nel libro. Ma quello che esso cerca di sottolineare e recuperare di questo compositore, è il suo importante apporto che dà dialetto (o lingua) napoletano e l’inserimento nel suo raffinato stile musicale, della musica popolare del suo tempo a Napoli , città che ha sempre accettato di buon grado le contaminazioni musicali, compresa quella calabrese, terra di origine di Vinci. Già Charles Burney, nel suo famoso “Viaggio musicale in Italia” del 1771, ci informa di alcune situazioni musicali esistenti a Napoli: “Un po’ prima del Natale arrivano a Napoli dalla
Calabria suonatori girovaghi…… la cui musica , però , è tutta diversa ….Cantano ordinariamente con una chitarra e un violino che essi non suonano appoggiandoselo sulla spalla, ma come se fosse un contrabasso” (probabilmente si trattava una lira calabrese nda).
Nel libro in questione vengono chiamati in causa momenti delle opere di Vinci in cui sembra esserci un rimando alla tradizione musicale calabrese e napoletana. Una di queste opere è “Li zite ‘ngalera” scritta da Vinci su libretto di Bernardo Saddumene e rappresentata nel 1722 al Teatro dei Fiorentini di Napoli - tra l’altro, quest’anno in cartellone alla Scala di Milano e visibile in TV anche da casa-. L’Aria iniziale dell’opera “Vurria addeventare suricillu” è cantata dal soprano Ciccariello, tipico dell’opera settecentesca è infatti che personaggi maschili siano interpretata da voci femminili e viceversa. Ciccariello è lo scanzonato garzone e tiratore di scherzi del barbiere Col’Agnolo. In quest’Aria dai contenuti ironici e paradossali si riscontra una coincidenza semantica e linguistica con il canto popolare della zona natia di Vinci “Mi vorria diventari nu fintu marvizzu”.
D’altra parte questa Aria nel clima di folk-revival degli anni Settanta è arrivata al grande pubblico dalla voce di Peppe Barra. Le cose andarono più o meno così. L’opera di Vinci fu presentata al Teatro della Pergola di Firenze in cui, però, Barra interpretava con voce di tenore il ruolo femminile di Meneca con Arie dal sapore altrettanto popolari come “Ll’ommo è commo a no piezzo de pane”. Per denotare drammaturgicamente i caratteri del personaggio della ricca, anziana e maliziosa, c’era bisogno di una voce maschile e fu appunto quella di Barra. Tuttavia, l’Aria iniziale di Ciccariello, staccata dall’ opera, divenne una delle canzoni più conosciute di Peppe Barra e la Nuova Compagnia di Canto Popolare Napoletana, fondata da Roberto De Simone, compositore colto e grande conoscitore della Scuola Napoletana, nonché autore de “La Gatta Cenerentola”, un’opera dialettale direttamente ispirata alla commedia musicale settecentesca napoletana, rappresentata nel 1976 nel Festival dei Due Mondi di Spoleto. Non a caso De Simone è stato colui che dopo secoli ha riportato alla luce l’opera vinciana e di cui ha curato la regia della rappresentazione fiorentina con la direzione orchestrale di Massimo de Bernart. Una particolarità della regia di De Simone fu che all’inizio del
secondo atto de “Li zite ‘ngalera” inserì un’Aria di un’altra opera di Vinci, addirittura precedente, si tratta della commedia musicale “Lo Cecato fauzo” andata per la prima volta in scena a Napoli al Teatro dei Fiorentini nel 1719. L’Aria di cui stiamo parlando è “So’ li sorbe e le nespole amare”, intonata sempre da Barra-Meneca. Ciò non deve meravigliare più di tanto poiché il significato dell’Aria si inserisce a buon titolo nel momento drammaturgico de “Li zite ‘ngalera” e rafforza il carattere di Meneca. Inoltre, nel teatro del Settecento è abbastanza usuale inserire delle Arie di altre opere- le cosiddette ‘Arie da baule’, inoltre, essendo “Lo Cecato fauzo” un’opera perlopiù andata persa, si è fatta buona conservazione di questo brano. Esso diventò un successo commerciale autonomo e fu cantato, oltre che da Barra, da Roberto Murolo, Sergio Bruni e tanti altri. Ne “Le zite ‘ngalera” si respira la musica popolare partenopea, in particolare quella di strada dal Colascione, “O rrè de li stromenti”, che, abbinato al violino, al mandolino e alla voce, fu il protagonista assoluto delle “Villanelle”. Questi i ricordi del citato Burney: “Stasera ho sentito nella strada dei canti schiettamente napoletani , accompagnati da un calascionino , un mandolino e un violino” . Non a caso ‘Colascione’ e anche uno dei personaggi del libro in riferimento. Vinci riesce a cogliere l’essenza di questa formazione borderline tra colto e popolare e ad affidarla all’orchestra con grande maestria, il colascione diventa così il ‘basso continuo’ del clavicembalo e del violoncello, i violini spesso raddoppiano il canto del soprano. Il basso e il canto quindi separati e ben riconoscibili, una musica essenziale, ‘orecchiabile’ diremmo oggi, ben lontana da quella dei suoi contemporanei. Nel libro viene citato in proposito Leonardo Leo, che curava di più l’aspetto contrappuntistico e polifonico rispetto alla libera melodia vinciana. “Le zite n’galera” diventa world music quando la ‘galera’ del Capitano Federico sbarca a Vietri sul mare al suono di una orientale e molto popolare “Marcia Turchesca”. Il Capitano, nonché padre della protagonista Belluccia, ha intenti bellicosi e predatori, vuole ritrovare Carlo, il fidanzato della figlia, per vendicarsi dell’ abbandono di Belluccia. Il suo schiavo turco Assan ha invece il compito di rapire le donne per portarle nei serragli, egli canta con un impreciso italiano: “Seniura mia, venir co mia, veder Turchia” (Duetto Assan-Meneca) ; tuttavia, attratto dai loro canti accenna a dei passi di danza turca che le donne apprezzano molto (“… tanta belle cose sanno fare, e nfra ll’autre porzì sann’abballare”), passi che con molta probabilità troviamo sedimentato nella “Tammurriata”.
Francesco Stumpo