Garifuna, Africa-Americhe, “glocalità” tra musica, balli e tradizioni interculturali

1635: la tradizione orale narra …
Numerosi schiavi deportati nei Caraibi erano originari del Niger. Vennero condotti in condizioni disumane verso i porti dell’Africa occidentale e caricati sulle navi, per affrontare lunghi viaggi verso le Americhe. Nei racconti di tradizione orale si narra che, nel 1635, alcune di queste navi (gestite da colonizzatori olandesi) naufragarono, a seguito di violente tempeste, vicino all’isola di “Yurumein” (nome attuale, “Saint Vincent”). Vennero accolti dagli amerindi “Carib” e “Arawak”, popoli originari della Guyana, del Suriname e del Venezuela, i quali abitarono l’isola ben prima dell’arrivo dei conquistatori europei.  Alcuni raccontano di aver appreso oralmente che gli schiavi africani si ribellarono agli aguzzini bianchi, prima di naufragare verso la predetta isola. Nei fatti, in tale isola si formò, progressivamente e in modo pacifico, l’eterogenea comunità dei “garínagou” (plurale di “garínagu”), nell’onomastica inglese chiamati “black caribs”. In seguito, di preferenza vennero denominati “garífuna” (il nome deriva da “karífuna”, che significa “il gruppo della manioca”). 
La loro lingua divenne una commistura, caratterizzata dall’incontro di due o più culture, come riscontrabile nei testi dei racconti orali (“úraga”), nei canti e nei riti locali. Purtroppo tale lingua è destinata a scomparire, se non verranno attuati strutturali interventi legislativi a favore della sua tutela e salvaguardia.  Per diversi decenni la convivenza nell’isola di “Yarumei” fu pacifica, fino all’inasprimento dei conflitti tra Francesi e Inglesi, i quali si contesero aspramente il dominio di quelle terre. Questi ultimi, alla fine, conquistarono la supremazia e i “garífuna” (alleati dei francesi), alla fine del XVIII secolo (dopo che, nel 1795, fu ucciso il capo-guerriero Joseph Chatoyer), furono deportati verso le coste dell’Honduras, in particolare nell’isola di “Roatán”. Battaglie cruente e lunghi spostamenti via mare comportarono il sacrificio di alcune migliaia di vite, dimezzando di fatto la loro popolazione. L’esodo forzato di un gruppo abbastanza consistente di “garífuna” proseguì e, grazie all’azione dell’intraprendente condottiero Alejo Beni, riuscirono a raggiungere miracolosamente indenni le coste meridionali del Belize, nel 1832. L’evento, insieme al ricordo della diaspora originaria iniziata nelle coste africane, viene ancora oggi commemorato con una specifica festa nel mese di novembre.  I tre colori della bandiera “garífuna” sono simbolici. Il nero ricorda l’origine africana, i secoli di lotta e le emigrazioni, il bianco e il giallo sono, rispettivamente, riferiti alla pace e alla speranza. 

Cenni su musica e balli “garífuna” 
La musica e i balli rappresentano un tratto caratteristico della cultura dei “garífuna”, la quale ha rilievo interculturale e nella quale sono ancora riconoscibili alcuni tratti d’unione con la terra africana d’origine. L’accompagnamento ritmico di canti e balli viene eseguito soprattutto da due tamburi chiamati “garaon”. Tali tamburi lignei, con caratteristica struttura formale, possono essere ricoperti da pelli di vario tipo, in particolare di pècari (appartenente alla famiglia dei suidi), cervo o pecora. La percussione è tipicamente manuale. Più di recente, alcuni esecutori sono soliti utilizzare dei fili metallici, per garantire un suono più marcato, simile a quello dei rullanti delle batterie moderne. Nella musica rituale, i battitori sono di norma tre. Gli strumenti hanno diverse dimensioni e sono detti “primer” (il “primo”, anima pulsante dei suonatori),  “segunda” (la “seconda”, ha il compito di contrappuntare il “primer”) e “tercera” (tiene la linea di basso). Altri strumenti ritmici utilizzati nei gruppi “garífuna” possono essere il “guiro”, la “clave”, le conchiglie, i gusci di tartaruga e, soprattutto, le cosiddette “siseras” (o “maracas”), zucche svuotate con all’interno semi essiccati.  
Nel “melting pot” della cultura musicale moderna, sempre più spesso gli strumenti tradizionali vengono integrati da altri più tipicamente europei quali, ad esempio, chitarra, flauto, violino o anche strumenti elettrici ed elettronici. Da un punto di vista esecutivo, nei canti sono predominanti gli schemi responsoriali, basati sul principio del “domanda-risposta”. Il repertorio comprende canti con varia funzione sociale, come ad esempio, l’“eremwu eu” e il “laremuna wadauman”, quest’ultimo eseguito da uomini e donne durante la lavorazione del tipico pane di manioca (detto cazabe). I testi dei canti sono spesso centrati sulla rappresentazione degli stati d’animo e delle loro preoccupazioni quotidiane. I contenuti dei testi sono riferiti alla loro storia e alle loro conoscenze su agricoltura, pesca, costruzione di canoe e abitazioni in legno. I “garífuna” cantano con il cuore, per esprimere gioie e dolori del proprio popolo, rispettando precise date commemorative per gli eventi festivi e religiosi. La religione di riferimento è quella cattolica integrata da forti retaggi e credenze tipici delle culture africane e centro-sudamericane. “Buwiyes” sono detti i capi religiosi, “gubida” i loro antenati, ai quali insieme ai santi, vengono dedicate specifiche attenzioni rituali.  
Tra i balli evidenziamo la cosiddetta “punta”, la forma coreutica più utilizzata durante veglie, feste ed eventi di vario tipo come, ad esempio, la commemorazione dei defunti.  Il ballo è caratterizzato da coppie o da singoli che mostrano abilità di movimento delle anche e del bacino, seguendo il ritmo delle percussioni. In una variante moderna, detta “punta rock”, sono utilizzati anche strumenti elettrici ed elettronici, trattandosi di uno stile coreutico più confacente ai dettami commerciali e turistici. Rispetto all’etimo del ballo sono state avanzate diverse ipotesi, come pure in merito alle funzioni sociali e rituali. Alcuni studiosi suppongono che in origine fosse un ballo legato alla fertilità, altri hanno posto l’accento sul virtuosismo e le forme di corteggiamento. Ci sembra utile evidenziare che la “punta” può essere ballata durante la cosiddetta festa “dugu”, rito ancestrale (della durata di diversi giorni) in celebrazione dei morti. In questa occasione viene preparato specifico cibo, poi gettato in mare o sepolto come offerta agli spiriti. La “punta”, inoltre, può essere ballata a casa del defunto a seguito del funerale, poiché la danza trascende, accompagnando idealmente il viaggio ultraterreno del morto, al contempo unendo la comunità intorno ai familiari del trapassato. Contestualmente ai balli, vengono intonati anche specifici canti.  Abbiamo posto rilievo sul ballo della “punta”, ma nella tradizione “garífuna” sono praticati numerosi altri balli, che possiedono diverse denominazioni: “gunchei, guanaragua, paranda,  hunguhungu, mascaro, chumba, indio barbaro, luyano, yankunnu”. Tali balli risentono di influenze, mutate dagli stili coreutici afro-caraibici, giamaicani e haitiani.
Come si sarà potuto intuire da quanto sin qui accennato, la cultura “garífuna” offre numerosi spunti di approfondimento etnomusicologico. Sono encomiabili l’impegno e la tenacia da parte dei più anziani delle comunità locali, per cercare di mantenere vive le tradizioni e il loro legame originario con l’Africa. Tuttavia, nella plenitudine culturale, in contesti sempre più uniformati e globalizzati, risultano evidenti e manifeste le difficoltà nel riuscire a coinvolgere i più giovani nella conservazione delle pratiche rituali, meno in quelle più spettacolari legate ai balli e ai canti. Di sicuro incentivo è stata la promozione avanzata dall’UNESCO, che ha inserito aspetti della cultura immateriale locale nella “Lista” dei patrimoni dell’umanità. Tuttavia, senza adeguati piani di conservazione, tutela e trasmissione del sapere e delle conoscenze anche in ambito scolastico e sociale, è prevedibile che le tradizioni, gradualmente, tenderanno a perdersi o verranno fortemente ibridate sotto la spinta consumistica o dello spiccio esotismo, teso a gratificare e a rallegrare il passeggero interesse di curiosi e di turisti. Da parte nostra, il rinnovato auspicio affinché le culture locali vengano tenute in seria considerazione, avendo chiari i contesti interculturali e inter-nazionali di pacificazione, indispensabili per dare spessore a quanto faticosamente ereditato dal passato. Per i “garífuna” è determinante dare rilievo e continuità alla propria peculiare identità, le cui conoscenze sono il risultato di secolari stratificazioni, interpolazioni e integrazioni, tra tradizioni africane, europee, indigene amerinde e caraibiche. Ci piace pensare alla cultura dei “garífuna” come perla rara nella plenitudine della conoscenza che guarda con gioia verso un nuovo umanesimo, nel segno della pace e della valorizzazione culturale dei singoli popoli.  

Paolo Mercurio

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