Nell’oramai lontano 1976 erano passati poco più di tre anni dal criminale colpo di stato di Pinochet in Cile e dall’assassinio al Palacio de la Moneda di Salvador Allende, legittimo Presidente del Governo di Unidad Popular, quando il Cile per ragioni più di potere che di sport giunse in finale di Coppa Davis. In Italia continuavano ad esserci vibranti proteste nelle strade contro le quotidiane infami violazioni dei più elementari diritti umani, contro il feroce dittatore Pinochet e contro Nixon e Kissinger che si erano adoperati affinché si creassero “il più possibile le condizioni che ciò potesse accadere”. Lo scrittore Luis Sepúlveda che all’epoca faceva parte della scorta di Allende (Grupo de Amigos Personales - GAP) scrisse: “La mattina di quell’undici settembre del 1973 ero un giovane, avevo ventitré anni, alle cinque della sera già la giovinezza era passata”. In quei giorni l’Estadio Nacional di Santiago del Cile era stato trasformato in campo di concentramento. Tra le tante vittime innocenti anche Victor Jara, torturato, mutilato ed infine mitragliato a morte proprio in quello stesso stadio in cui nel 1969, anno della sua inaugurazione, aveva trionfato al Festival de la Nueva Cancion chilena con la “Plegaria a un labrador”. Quello stesso stadio che oggi porta il suo nome. Delle cinquantasei nazioni partecipanti quell’anno alla Coppa Davis di tennis (trentadue europee, dodici asiatiche e dodici americane) numerose si rifiutarono di andare a giocare in Cile e prima ancora di affrontare una squadra che rappresentava tale feroce dittatura, l’ultima era stata l’Unione Sovietica in semifinale.
Il Cile divenne perciò falso finalista della competizione mondiale. Se i sovietici avessero giocato, e probabilmente vinto, chi può dire come sarebbe andata una eventuale finale contro gli italiani, che vi si erano qualificati superando a Roma l’Australia del campione John Newcombe?! Molto sarebbe stato senz’altro da raccontare in altro modo. A causa di questo rifiuto, l'URSS fu sospesa per due anni dalla competizione con una decisione presa a Parigi nel novembre dello stesso anno, dal comitato di Coppa Davis presieduto da W. Harcourt Woods. Quei fatti del 1976 non erano stati i primi in assoluto: qualcosa del genere era già accaduto nel 1965, quando fu sospesa in extremis la sfida tra l’URSS e l’allora Rodesia (oggi Zimbabwe). E poi a Johannesburg nel 1972 durante la Federations Cup (analoga femminile della Coppa Davis) dove Monica Giorgi contro l’Australia, indossò una maglietta con la scritta “No al razzismo” e l’immagine di due coppie di piedi bianchi e neri, in faccia al regime dell’apartheid sudafricana. Per questo fu squalificata dalle competizioni per due anni perché giudicata indegna di rappresentare la sua Nazione.
L’Italia era nel 1976 all’apice storico della propria qualità sportiva tennistica nazionale ma la sua rinuncia alla finale contro il Cile avrebbe rappresentato, oltre ad un’adesione all’isolamento internazionale del regime fascista di Pinochet, un sostegno di grande solidarietà morale per ogni cileno democratico. Primi fra tutti il gruppo degli Inti Illimani, colti casualmente in Italia il giorno del golpe militare mentre alle tre
del pomeriggio stavano visitando la Cupola di San Pietro assieme al Canzoniere Internazionale del compianto cantautore-critico musicale Leoncarlo Settimelli. In quegli stessi giorni di settembre del 1973 a Milano era in corso la Festa Nazionale de l’Unità e i sei giovani musicisti cileni furono “adottati” dal Partito Comunista, Giancarlo Pajetta propose che rimanessero a vivere in Italia, paventando l’idea che la sanguinosa dittatura nel loro Paese sarebbe purtroppo durata a lungo. Venne loro offerta casa a Genzano di Roma. Purtroppo, aveva tristemente ragione: dovettero rimanere per quindici anni. Durante quella loro iniziale tournée europea, che avrebbe dovuto proseguire in Olanda, Germania, Svezia, qualche giorno avanti avevano inciso a Milano, il primo disco lontano da casa, con l’intento di lasciare una testimonianza prima del ritorno in Patria. Era una raccolta di ciò che avevano suonato in quei primi quattro anni di vita del gruppo e decisero di farlo per I Dischi dello Zodiaco di Armando Sciascia, optando per il titolo“Viva Chile!” e usufruendo della splendida copertina disegnata da Vicente Larrea, colui a cui si deve la grafica della Unidad Popular (la coalizione che sostenne Salvador Allende alle elezioni presidenziali cilene del 1970). Grazie a quel disco fummo in molti ad ascoltare per la prima volta i suoni di quegli strumenti andini e ad amare profondamente le loro canzoni popolari ma, come detto, per gli Inti, la storia aveva crudelmente deciso in altro modo.
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