Roberto Ottaviano|Alexander Hawkins – Charlie’s Blue Skylight (Dodicilune/IRD, 2022)

Sassofonista dal timbro riconoscibile e compositore in grado di spostare sempre più avanti i confini delle proprie esplorazioni sonore, Roberto Ottaviano ha alle spalle un articolato cammino artistico denso di collaborazioni prestigiose da Giorgio Gaslini ad Enrico Rava, dalla ICP Orchestra di Misha Mengelberg a Keith Tippett, fino all’esperienza con Canto General. Sotto il profilo discografico, l’ultimo decennio è stato un crescendo costante con dischi di grande pregio come  “Arcthetics. Soffio Primitivo” del 2013, il magnifico omaggio a Steve Lacy con “Forgotten Matches. The Worlds of Steve Lacy” del 2014 e i più recenti “Sideralis” del 2017, disco dell’anno Top Jazz per la rivista Musica Jazz, “Etenal Love” del 2018 e “Resonance & Rhapsodies” del 2020. A due anni di distanza da quest’ultimo lo ritroviamo in duo con Alexander Hawkins alle prese con “Charlie’s Blue Skylight”, tributo all’opera di Charles Mingus nel centenario della sua nascita e composto integralmente da brani firmati dal contrabbassista americano. La profonda sensibilità e l’approccio contemporaneo e vitale dei due strumentisti a queste composizioni ci consente di cogliere la straordinaria modernità che le caratterizza tanto nell’intreccio narrativo, quanto nelle strutture musicali. L’eloquio inconfondibile, le istanze politiche, la rabbia verso l’intolleranza razziale e quel vivere costantemente in corsia di sorpasso che permeavano i dischi di Mingus li riscopriamo sotto una nuova luce come nel caso di “Hobo Ho” con la trama ritmica del pianoforte che evoca il contrabbasso dell’originale, la brillante melodia di “Remember Rockfeller At Attica” o di “Oh Lord, Don’t Let Them Drop That Atomic Bomb On Me” con Hawkins al pianoforte che ne destruttura il tema. Magnifiche sono ancora le soluzioni adottate nel blues di “Dizzy Moods” in una versione dialogicamente asimmetrica e nell’onirica “Smooch A.K.A Weird Nightmare”, ma soprattutto in “Free Cell, Block F Tis Nazi U.S.A.” con il magistrale solo di sax di Ottaviano. Di questo magmatico album e di molto, Alessio Surian ha parlato con il sassofonista pugliese che ci ha condotto alla scoperta di questo nuovo ed eccellente album.
(Salvatore Esposito)

Com'è entrato Mingus nella tua vita e in che modo ti ha influenzato come musicista e come compositore?
La mia “conquista” del Jazz è avvenuta, come per molte persone della mia generazione, attraverso esperienze musicali contigue, più vicine al temperamento di un giovane adolescente della fine degli anni ’60. Il ponte è stato il Free e il così detto Jazz “elettrico”. Ecco tirando una linea sommaria sono giunto a Mingus ed all’approfondimento del suo mondo attraverso l’Art Ensemble of Chicago, con la sua teatralità e la rappresentazione di un mondo afroamericano che scavalca il cliché e che canta il blues senza disdegnare strategie sonore che guardano altrove. Quest’ultimo elemento descrive esattamente quella che è stata la mia traiettoria formativa come performer e come organizzatore della mia musica.

Come hai dato vita a "Mingus - Portraits in six Colours" e come leggi oggi quanto realizzato con i Six Mobiles 25 anni fa?
Guardando indietro, ogni formazione da me messa in piedi, scegliendo accuratamente le persone con cui lavorare, porta con sé una precisa idea di suono e storia. A ritroso formazioni atipiche come “Astrolabio” (quartetto di fiati con Trovesi, Ferris e Godard), “Arcthetics” (un quartetto d’archi di improvvisatori più sax e percussioni), e quindi Six Mobiles. In quest’ultimo caso c’è stato anche un elemento affettivo. La mia amicizia e profonda stima con il polistrumentista Mario Arcari con il quale negli stessi anni condividevamo l’avventura in uno splendido laboratorio di composizione ed improvvisazione guidato dall’austriaco Franz Koglmann che fornì più che una ispirazione. Ecco nel caso di Six Mobiles – Mingus ci fu una straordinaria attenzione alla scrittura ed alla organizzazione dettagliata della musica, al rapporto tra legni ed ottoni, all’incastro della voce nella splendida interpretazione di Tiziana Ghiglioni. 

Mingus ci ha lasciato un'autobiografia insieme ad altre testimonianze ed interviste: che idea ti sei fatto del suo percorso umano, sociale ed artistico? 
Credo che la sua autobiografia come pure libri come “Tonight at Noon” scritto da Sue Graham, tracciano un profilo molto chiaro di Mingus. C’è tanto materiale su cui riflettere, studiare, non solo sulla sua personalità, ma anche in relazione con il contesto sociale e politico degli anni in cui Mingus ha agito. Una cosa in particolare mi ha sempre trasmesso un sentimento di grande affinità, il sentirsi legato ai maestri ma nello stesso tempo vivere guardingo e disilluso rispetto al mito della Jazz Community. In questo, personaggi come Mingus, anche oggi sarebbero oscurati ed isolati.

Senti che il Mingus scrittore abbia giocato un ruolo nella vostra "lettura" dei suoi brani?
Non posso dirlo con certezza per Alexander ma per me si. Il Mingus pensiero, trasferito attraverso i titoli delle sue composizioni, ma in generale nei suoi gesti sarcastici e perfino violenti, hanno inevitabilmente influenzato le dinamiche esecutive ed interpretative.

Quando è nata e come si è sviluppata la collaborazione con Alexander Hawkins e come siete arrivati ad incidere “Forgotten Matches”? 
Avevo sentito il nome Alexander perché suonava con il mio grande amico batterista sudafricano Louis Moholo che ho conosciuto a metà anni Settanta e con cui ho suonato a fasi alterne fino ad una diecina di anni fa. Avendo in mente questo omaggio a Steve Lacy su più dimensioni (il solo, il trio, il pianoless quartet ed il duo con il piano), la sua collaborazione con Moholo all’epoca di Forest and The Zoo capolavoro registrato in Argentina per la ESP Disk, mi è sembrato perfetto invitare un giovane talento che come me avesse delle affinità elettive e delle esperienze comuni con questi musicisti. La registrazione di “Forgotten Matches” è stata una rivelazione che mi ha guidato poi nell’approfondire la nostra partnership.

Come avete scelto il repertorio che avete riletto nell'ultimo album? 
Abbiamo avviato un rapido confronto sul corpus compositivo Mingusiano, consapevoli che alcune cose dovevano essere logicamente trasfigurate nella dimensione del duo. L’impatto energico, e l’acrobazia dinamica dei suoi gruppi necessita una diversa chiave di lettura anche se non volevamo rinunciare alla forza esclamatoria di alcuni suoi temi, dal taglio bruciante del blues espresso anche in brani che si dirigono verso diversi territori. Allora abbiamo giocato molto per contrasto come, ad esempio, nella prima parte di “Remember Rockfeller at Attica” che nella prima parte assume volutamente un andamento più straniato e impressionistico, oppure nello spazio improvvisativo centrale di “Dizzy Moods” che recupera una certa “clownerie” di Mingus. Poi abbiamo cercato anche di inserire delle pagine poco note e scarsamente documentate come ad esempio “Hobo Ho” o “Us Is Two” che è il perfetto anello di congiunzione tra Ellington e Mingus.

Che rapporto hai con i dischi di Mingus da cui avete tratto i brani? 
Ci sono quattro o cinque titoli che hanno segnato il suono della mia formazione e della mia maturità. “The Clown”, “Tijuana Moods”, “Oh Yeah”, “Pithecanthropus Erectus”, “Mingus Mingus Mingus”…e poi naturalmente i “Changes”. Li collego al bianco nero cinematografico di Cassavetes, ma anche a quello del Welles di “Citizen Kane”.

Come si è indirizzato  il vostro lavoro in fase di arrangiamento dei brani?
Come ho avuto modo di dire in qualche altra occasione, questo lavoro è un tributo sui generis. Non abbiamo voluto “confezionare” una prevedibile opera omaggio, né tantomeno una elaborazione destrutturante o intellettuale su di una musica ed un autore che abbiamo inteso percorrere con grande abbandono, consapevoli di chi siamo noi. Più che una rilettura più o meno dotta, abbiamo cercato di svegliare una memoria sul Mingus come presenza inquietante, interrogatoria e creativa su di un mondo musicale che spesso corre il rischio di diventare auto celebrativo e che incorre nell’errore di diventare auto assolutorio grazie ad un alto tasso di virtuosismo che si sostituisce alle idee.  Per questo, se venticinque anni fa con Six Mobiles andai in studio con una montagna di carta, oggi, con Alexander abbiamo guardato a Mingus come Alice nello specchio.

In che misura Lacy e Waldron attraversano il vostro lavoro?
Di certo io sono più debitore a Lacy di quanto Hawkins lo sia nei confronti di Waldron. Idealmente però così come quest’ultimo, con il suo timbro scuro e la modalità di ricavare un alveo ideale per il suono di Lacy ha rappresentato un partner ideale, altrettanto posso dire di Alexander con cui c’è una magnifica intesa, un perfetto interplay ed una grande apertura.

In che modo le musiche di Mingus ti sollecitano a ri-leggere il tuo approccio al  sax quando entri in studio di registrazione?
Una volta fu chiesto a Lee Konitz quale fosse stato il suo rapporto con Charlie Parker negli anni cruciali della sua comparsa in scena. Konitz rispose che anche lui non era sfuggito alla straordinaria influenza che l’icona del sax bop esercitava su pressoché chiunque. Ci aveva provato a suonare come lui, ma niente da fare, quel che usciva era sempre e solo Konitz (e viva Dio, aggiungo io). Come potrei competere con una pletora di campioni come Booker Ervin, Roland Kirk, Charlie Mariano, Eric Dolphy, George Adams.
Alcune loro inflessioni fanno capolino certo, sono quei sassolini che hanno contribuito all’edificio del mio modo di suonare, e mi piace evocarli di quando in quando perché rappresentano il mio modo metempsicotico di entrare in contatto con questi grandi solisti. Ma alla fine ne esce il mio modo faticoso, sgangherato, affannato di restare in equilibrio. Ma è il mio, con tutto l’amore che ho.

Come proseguirà la collaborazione con Alexander Hawkins e quali altri progetti sono in corso?
Al momento abbiamo in previsione ancora diversi concerti in duo, nei quali sperimentiamo cose anche molto diverse che spaziano, come abbiamo fatto in passato da Sun Ra ad una scrittura legata ad esperienze contemporanee più o meno storicizzate da Feldman a Xenakis, e dove potendo allargo la palette timbrica all’uso del sopranino e dell’alto. E poi non dimentichiamo Eternal Love in cui Alexander gioca un ruolo armonico e percussivo essenziale.  


Alessio Surian

Roberto Ottaviano|Alexander Hawkins – Charlie’s Blue Skylight (Dodicilune/IRD, 2022)
In proporzione alla qualità, varietà e al numero delle composizioni di Charles Mingus, la sua musica è stata finora relativamente poco frequentata. In parte, possiamo leggere questa tendenza anche come un segno di riguardo per una scrittura, una trama espressiva ed incisioni di riferimento che incutono rispetto e suggeriscono di evitare interpretazioni e riletture estemporanee. Nondimeno, chi si dedica a queste musiche mostra che un lavoro in profondità e longitudine da ottimi frutti, sia nel farci scoprire luci ed angolature inedite del repertorio mingusiano, sia nel mettere in evidenza aspetti specifici del lessico degli interpreti, come mostra “Charlie’s Blue Skylight”. L’album nasce nel contesto di longeve collaborazioni: quelle che legano il sassofonista Roberto Ottaviano, da un lato al rapporto con Dodicilune – che dura da una quindicina d’anni e vanta otto uscite, compreso "Resonance & Rhapsodies", disco dell’anno nel 2020 per la rivista Musica Jazz – , dall’altro al pianista Alexander Hawkins, già protagonista di «Forgotten Matches», il doppio album, inciso nel 2014 per la stessa etichetta, dedicato a Steve Lacy. Per il nuovo album i protagonisti hanno potuto misurarsi con Mingus sia all’interno del quintetto Eternal Love (con Colonna ai clarinetti, e Maier e De Rossi in sezione ritmica), sia come duo. In quest’ultima formazione hanno inciso con Stefano Amerio undici brani in due giorni, l’8 e il 9 giugno nello studio Artesuono, a Cavalicco (Udine), per poi dar vita ad una serie di concerti in Italia e in Europa, fra estate e autunno; hanno cominciato il 29 Luglio al Calagonone Jazz Festival ed il prossimo è in programma il 26 Novembre al Padova Jazz Festival. Il blue domina la copertina dell’album a unire cielo e mare senza soluzione di continuità: in alto a sinistra nuotano le sagome nere di sette balene, a ricordare forse le 56 balene che andarono a spiaggiarsi sulle coste messicane a poche ore dalla morte Mingus a 56 anni a Cuernavaca il 5 gennaio del 1979. Al centro in basso si staglia la sagoma, nera, del musicista col suo contrabbasso. La tessitura sonora e la poesia che permea “Charlie’s Blue Skylight” fanno riverberare quella ricerca di essenzialità che permeava anche “Paris Blues” registrato trentacinque anni fa da Gil Evans e Steve Lacy con tre brani di Mingus interpretati in quell’occasione utilizzando sia il pianoforte acustico, sia il Fender Rhodes, così come fa con perizia Hawkins in “Smooch A.K.A Weird Nightmare” e “Haitian Fight Song” a metà e in chiusura del disco. L’album si apre con “Canon”, lo stesso brano iniziale dell’album dedicato a Mingus nel 1992 da Hal Willner “Weird Mightmare: meditadions on Mingus”, quattro anni dopo l’ottimo lavoro “Mingus: Portrait In Six Colours” registrato a Milano per la Splasc(h) di Ottaviano con i Six Mobiles (Arcari, Bonvini, Cerino, Gualandris, Mayes e Tiziana Ghiglioni). Cos’ha di speciale “Canon”: oltre alla splendida melodia, fu il brano d’apertura del primo album inciso da Mingus (“Mingus Moves”, 1973) con Pullen al piano e Adams al tenore e di nuovo con Dannie Richmond alla batteria. Memore degli intrecci sonori con i Six Mobiles, in “Charlie’s Blue Skylight” (come più tardi in ““Free Cell, Block F Tis Nazi U.S.A.”). Ottaviano fa tutto da solo, sovra-incidendo linee di sax che danno vita ad un dialogo e ad una versione del brano che promette di rimanere un classico. Tre brani più tardi, anche Hawkins interpreta un brano in solitaria e sceglie, guarda caso, una composizione incisa una dozzina d’anni prima da Mingus che in sala di registrazione scelse di mettersi lui stesso al pianoforte per sottolineare la profondità dell’invocazione collettiva “Oh Lord Don't Let Them Drop That Atomic Bomb on Me”.  Fra i due brani solisti, Ottaviano e Hawkins offrono due brani che mettono in evidenza le qualità melodico-armoniche della scrittura di Mingus e rimandano all’inserimento di Roland Hanna e James Moody nel suo gruppo all’epoca di “Let My Children Hear Music” (1971) con la ritmata “Hobo Ho” e, poi, ai due album (“Changes” 1 & 2) incisi a dicembre del 1974 (che offrono una buona porzione del repertorio del disco), a cominciare dalla narrativa “Remember Rockefeller at Attica”, a ricordo delle rivolte del 1971 in quella prigione, nello stato di New York, governato allora da Nelson Rockefeller. Con “Pithecanthropus Erectus” e “Dizzy Moods” (incisa nel 1957, ma pubblicata dalla RCA solo cinque anni dopo in apertura di “Tijuana Moods”, con i sax di Shafi Hadi e al piano di Bill Triglia) ritroviamo il linguaggio contemporaneo, capace di entrare ed uscire dalle cornici di riferimento metriche e armonico-melodiche, senza rinunciare a lirismo e humour, comprese due citazioni (qui e in “Hobo Ho”) che rimandano allo scat (“salt peanuts”) di Gillespie.  Nella parte finale, “Us is Two” e “Self Portrait in Three Colors” giocano nei titoli con gli elementi di complementarità del duo e con i conflitti interni alla personalità di Mingus, tornando ad un registro squisitamente melodico che riflette il sentimento di Roberto Ottaviano nei confronti delle musiche di Mingus: “Per me è sempre stata un’altra questione d’amore", scrive nelle note di copertina. “Eccessivo, indicibile, in grado di passare dalla seta blue alle orge ecclesiastiche con lo scatto di un giaguaro. Accendere un fuoco e bruciare in fretta tutto, Gospel, Blues, Ellington, Songs, Pitecantropi e uomini multipli come Rahsaan, allucinazioni e psicosi, e poi sedersi con la sua pipa e osservare le fiamme con la tenerezza di un bambino, con gli occhi lucidi. Non potevo che chiedere ad Alexander di condividere con me questa autoterapia d’amore attraverso la luce blue del cielo di Charlie”.


Alessio Surian

Posta un commento

Nuova Vecchia