È una vera e propria operazione culturale, quella di cui si fa carico Olden, al secolo Davide Sellari, di quelle necessarie perché urgenti. Giunto al settimo capitolo del suo percorso discografico, il cantautore perugino ma catalano di adozione, ha dato nuova vita a liriche non edite ufficialmente del repertorio di Gianni Siviero, cantautore che folgorò Amilcare Rambaldi e fu presenza fissa nelle prime tre storiche edizioni del Premio Tenco. Un opera prima omonima del 1972, arrangiata da Nicola Piovani e una carriera di cui si perdono le tracce dopo “Il castello di maggio” del 1976 che era uscito un anno dopo “Carcere”, suo vero capolavoro. Da quel momento, il nulla, almeno per quanto riguarda la discografia ufficiale. In realtà, il cantautore torinese non si è mai fermato, continuando a riempire i suoi archivi digitali di parole, fra undici libri e più di duecento canzoni, tutte pubblicate (e disponibili in download sul suo sito) su “dischi cromatici”, dal ’78 ad oggi. Da questo straordinario mare magnum, Olden ha scelto dieci brani, scritti nell’arco di oltre quarant’anni che, nel loro insieme, compongono gli ideali capitolo di lucido e caustico ritratto del mondo che ci circonda. Con la complicità di tre eccellenti strumentisti come Ulrich Sandner (chitarre acustiche ed elettriche), Flavio Ferri (basso e tastiere) e Alex Carmona (batterie e percussioni), Olden (voce e chitarra acustica) ha dato vita a “Questi anni. Dieci brani di Gianni Siviero”. Ad aprire il disco è il ruvido strumming acustico di “Non vogliamo capire” caratterizzata da elettrici distillati di synth e tastiera e da un secco pattern ritmico. “I piccoli regali” (“E musica, ho regalato musica perché nessuno si sentisse abbandonato al fragore spietato della solitudine”) è interpretata in duetto con Rusò Sala e si snoda lungo le trame dei sintetizzatori attraversate dagli interventi sferraglianti delle chitarre acustiche ed elettriche a fare da contraltare timbrico e sostenute da un basso viscoso. Si prosegue con “Troppe cose”, uno dei brani più interessanti del disco, in cui spicca la progressione di accordi diminuiti squisitamente cupa scandito da nebbiosi arpeggi acustici, ben poggiati su una nuvola elettronica madida e decadente. Se la title- track (“il nulla ma firmato, seriale, etichettato ma esclusivo, la disperata simbiosi solitaria con un pezzo di latta colorato, scagliato in una gara senza scopo, nel vuoto oscuro e privo di trofei di un’affollata angoscia senza nome”) è impreziosita dall’intervento di Sighanda e sorretta dall’elettronica e dalla chitarra elettrica, “Italiani veri” (“Un uomo e delle idee un po’ fuori dal normale, giù per una finestra: questo sì che è normale
l’uomo schiantato a terra, le idee un po’ son volate, nessuno le ha raccolte, le abbiam dimenticate. Credo non serva a niente parlare di Bologna, e di questo Paese inchiodato alla gogna”) si regge su un arpeggio decadente e, nel contempo, elegante su cui la tastiera ricama trame ed aperture. “Mille e non più mille” si apre col battere secco sulla cassa della chitarra che accompagna il cantato a cappella, a far da prodromo ad un pezzo dalle nuances rarefatte e fumose, ultimato dallo spooken word di Siviero. In “Sere di luglio”, cantata insieme a Claudia Crabuzza, ci accolgono i colori languidi della steel guitar, stressati dai tremori sintetici delle tastiere. A chiudere il parterre de roi di ospiti è Wayne Scott, che presta la sua voce ad “In cerca di un ragionamento”, brano colorato da pennellate di acida elettricità cavalcante ed esasperata. Il toccante omaggio ad uno dei “quattro ragazzi” di degregoriana memoria di “Dimmi Giorgio - Per Giorgio Lo Cascio” (“Dimmi una ragione che valga la paura di essere noioso e di parlarne ancora, di essere solo e di cantarne ancora, fammi un sorriso che mi dica “ancora parlane sempre ancora e ancora e ancora”) ci accompagna verso il finale muovendosi lungo una morbida apertura armonica di synth e tastiere, ben sottolineata dal leggero delay della voce. Chiude il disco “Che bella luna” giocata sul languido arpeggio di tastiera sostenuto da un basso corrosivamente saturo e dalle dissonanze tumefatte della chitarra elettrica.
Insomma, al di là della bontà “tecnica” e dell’interessante vestito sonoro cucito addosso ai testi di Siviero, l’opera compiuta da Olden appare assolutamente meritoria, avendo il pregio di rimettere insieme i tasselli di un mosaico, quello della nostra storia, un ritratto in fieri che è lo specchio del nostro paese.
Giuseppe Provenzano
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