Interiors – Overtones (Sisma Records/Audioglobe, 2022)

Giornalista, autore e conduttore radiofonico, nonché apprezzato fotografo Valerio Corzani non ha bisogno di presentazioni sulle nostre pagine dove ogni settimana ospitiamo la preziosa ed originale rubrica “Corzani Airlines”. Allo stesso modo abbiamo seguito sempre con grande attenzione la sua parallela attività di musicista dall’esperienza con i Mau, a quella con i Mazapegul per toccare gli Ex e giungere, in tempi più recenti, al progetto Interiors, nato nel 2012 dal sodalizio artistico e di vita con Erica Scherl, violinista di formazione classica e attiva in diversi ambiti musicali con formazioni come Alboreo, Stenopeica e Les Violons d'Ingres. Dopo aver debuttato con “Liquid” nel 2014 seguito a breve distanza dall’intrigante Ep natalizio “Soundtrack for Christmas tree”, il duo si è segnalato per l’originale ricerca sonora e la costante tensione nell’esplorare territori musicali sempre nuovi, facendo dialogare strumenti analogici ed elettronica, il tutto permeato da peculiari strutture ritmiche. Incroci e attraversamenti tra ambient, dub, nujazz, musica contemporanea e world music sono gli ingredienti di una cifra stilistica che si è fatta man mano sempre più riconoscibile come dimostrano “Plugged” del 2016 e “Escape from The War” del 2019. A distanza di tre anni da quest’ultimo li ritroviamo con “Overtones”, doppio album che mette in fila quattordici composizioni originali nel primo disco e nove remix nel secondo, componendo un esperienza sonica immersiva tra atmosfere cinematografiche, spaccati che lambiscono ora le avanguarie, ora la forma canzone, ora ancora l’improvvisazione. Con Valerio Corzani abbiamo ripercorso la genesi del disco per soffermarci sull’approfondimento dei brani più significativi. 

Come si è evoluta la ricerca sonora del progetto Interiors?
Ci sono dei fili rossi che abbiamo seguito sin dall'inizio e sono rimasti sempre quelli: l'approccio poetico e anche funzionale che abbiamo deciso di applicare ai nostri progetti ovvero quello di caratterizzare il suono con gli archi di Erica e con i miei bassi piuttosto profondi, e molto gommosi, vicini all'estetica del reggae e del dub. Quello è il suono che mi piace di più e che abbiamo applicato sempre nei nostri missaggi, nel lavorare in studio come dal vivo. C'è poi il tentativo di coniugare la parte digitale (i loop, i campionamenti e le app) con il lavoro degli strumenti analogici, siano essi i miei bassi o il violino, o ancora quelli degli ospiti che via via abbiamo coinvolto, come nel caso di quest’ultimo lavoro. Sicuramente negli ultimi tempi abbiamo precisato meglio gli equilibri e ci sentiamo un po’ più maturi da questo punto di vista. Riascoltando i dischi precedenti ci sono cose che ci piacciono ancora molto, ma ci sembra che nell’ultimo ci sia un maggiore equilibrio e una serie di intuizioni nuove. Ad esempio, abbiamo affiancato all’uso dei loop il manovrio di un batterista, cosa questa che non avevamo mai fatto in passato e che ci siamo portati dietro anche dal vivo, dove si è aggiunto alla formazione Gaetano Alfonsi (un batterista che usa anche l’elettronica).

Dalla ambient degli inizi, la vostra ricerca in “Overtones” si è progressivamente spostata verso l’avanguardia e la world music…
C’è sempre stata un’attenzione verso la world music almeno in alcuni episodi e questo per quanto riguarda la scelta di alcuni campioni o strumenti che convocavamo al nostro fianco e che appartenevano al vasto bacino del folk mondiale. 
Nel nuovo disco sono presenti un paio di brani che potrebbero essere definiti anche ambient nell’accezione migliore del termine, così come certe attitudini ed influenze che in passato magari erano sullo sfondo, ora sono venute fuori meglio.  

C’è anche un avvicinamento verso la forma canzone…
In questo senso, il brano più significativo è “More Overtones”, con Luca Swanz Andriolo che ha scritto e cantato il testo. A dire il vero, però, siamo di fronte ad una forma-canzone sui generis perché sostanzialmente è una canzone senza ritornello e manda all’aria la regoletta strofa-bridge-refrain. Non ci interessa molto la durata standard radiofonica e prediligiamo strutture dilatate. Non è un caso che i brani durino spesso non meno di cinque minuti. La stragrande maggioranza di queste emittenti segue rigorosamente queste griglie rigide, noi ci rivolgiamo ad altri canali per guadagnarci nicchie di ascolto diverse. In passato era molto più difficile. Oggi se un disco come il nostro viene pubblicato su tutte le piattaforme, può trovare degli ascoltatori in tutto il mondo. Ad esempio quando abbiamo fatto uscire “Little Lullaby”, il primo singolo, abbiamo avuto un piccolo boom di ascoltatori norvegesi. Non so se sia accaduto perché avevamo scelto come copertina il particolare di una foto che avevo fatto ad una cantante sami, ma questo ha innescato degli ascolti che in passato sarebbe stato difficile immaginare. 

Dalla prospettiva del conduttore radiofonico, quanto rompe gli schemi un disco come “Overtones”?
Li rompe abbastanza. Il problema è trovare dei referenti nei media che vogliano raccogliere questa sfida. Rispetto all’accezione e allo slancio positivo di cui raccontavo prima, in Italia si è tutto ristretto moltissimo, soprattutto per quel che riguarda l’ascolto radiofonico in FM. 
Sono sempre meno le stazioni che dedicano spazio e ascolti a gruppi che fanno musica come la nostra, tanto che molti musicisti che prima facevano indie-rock o musica sperimentale, ora si sono allegramente votati ad un pop piuttosto spudorato. E’ una mossa che dà risultati immediati, ma certo limita un bel po' il tuo range creativo.

Come si è indirizzato il vostro lavoro sotto il profilo creativo?
Il disco è nato in modo diverso dal solito. Abitualmente accumulavamo idee, storie, suoni e facevamo una specie di pre-produzione casalinga dilatata nel tempo. In questo caso, abbiamo approfittato della prima estate del lockdown e ci siamo rifugiati in una casetta in montagna nelle Marche che abbiamo cercato in una posizione isolata, per poterci permettere di suonare notte e giorno. Lì abbiamo buttato giù tutte le idee compositive che sono finite nel disco e abbiamo sviluppato una specie di brutta copia dei vari brani, una pre-produzione e questa unitarietà tematica e di feeling del disco è dovuta anche a questo. Poi siamo passati in studio allo Spectrum di Bologna di Roberto Passuti, dove abbiamo registrato tutti i nostri dischi, e abbiamo messo in bella copia i brani. Abbiamo chiamato alcuni amici per renderli ancor più fragranti ed ammiccanti e ci hanno aperto a sorprese e strade nuove. Quando si chiama un ospite succedono sempre cose inaspettate. 

Sotto il profilo compositivo come sono nati i vari brani? Come funziona il processo creativo del progetto Interiors?
Funziona molto a quattro mani in realtà, anche se in fasi cronologiche diverse. E’ più probabile che io sistemi la parte ritmica, cercando dei groove da accostare ai giri armonici che creo al basso. Erica interviene per dare una veste melodica al tutto, ma non c’è una regola fissa. A volte è accaduto anche al rovescio, ma sostanzialmente lavoriamo in questo modo. Io fermo delle idee armoniche e ritmiche, poi con Erica aggiungiamo la melodia e proviamo ad immaginare quale potrebbe essere il vestito definitivo di un brano sia dal punto di vista melodico che della strumentazione da utilizzare e degli ospiti da inserire. La discriminante è che questi ultimi siano anche nostri amici e questo fa in modo che ci sia una sorta di sintonia preventiva, data dal fatto di conoscersi bene. Ad ognuno abbiamo assegnato due o tre brani in base al fatto che quelle tracce avevano bisogno, ad esempio della chitarra di Massimiliano Amadori, 
delle percussioni di Marco Zanotti, dell’ukulele di Camilla Serpieri, del clarinetto basso di Gianfranco De Franco o del sax trattato con un software digitale di Luigi Cinque. 

Qual è il brano a cui sei maggiormente legato a livello ispirativo?
Direi sicuramente “Ghost Town” perché è un brano che evoca nel titolo e nelle atmosfere il panorama piuttosto cupo di una città fantasma, desolata. Ho cominciato proprio in questo disco a pensare al lavoro sul basso come quello su una chitarra e mi si è aperto un mondo. Sin da subito mi è piaciuta la sequenza armonica che è venuta fuori, proprio seguendo questa attitudine, in “Ghost Town” e come, su quella, si è innescato tutto il lavoro di Erica sugli archi. Mi sembra che questa atmosfera oscura venga riscattata dal desiderio di abitare questo posto, questa ipotetica città fantasma. Un po’ come i Kraftwerk che amavano la Düsseldorf industrial dove vivevano, o come John Cheever che sguazzava nella periferia americana. Non è detto che i posti apparentemente isolati o alienanti non siano attraenti. La descrizione di un mood quasi depresso può trovare il suo riscatto se questa descrizione è fatta bene e si può farlo diventare un luogo accogliente. Ad esempio amo moltissimo i Nine Inch Nails che descrivono spesso questi panorami alienati o i Devo che hanno seguito questi tracciati da pionieri. Sono tutte band che hanno a che fare con temi che non dovrebbero rilassare o attrarre ma che, invece, lo fanno alquanto.

Mi ha colpito molto “Due di due” il cui titolo evoca il romanzo omonimo di Andrea De Carlo…
Il riferimento è proprio a quel libro. Certo si tratta di uno strumentale e non facciamo certo la trasposizione pedissequa dei temi di un romanzo, però questa specie di attraversamento e di viaggio che viene descritto da De Carlo, viene ripreso dall’andamento del brano che, peraltro, ha ancora una volta un riscatto importante nell’apporto degli ospiti. Decisivo, infatti, è stato il contributo di Luigi Cinque che ha impresso un florilegio sonoro molto interessante con lui che evoca con il sax un suono non troppo lontano dalla tromba di John Hassell. Personalmente il brano mi ricorda le sigle degli sceneggiati della Rai in bianco e nero: “Dov’è Anna” con Teresa Ricci e Mariano Rigillo o “Lungo il fiume sull’acqua” con Laura
Belli e Sergio Fantoni, programmi fantastici con sigle bellissime che evidentemente ci sono rimaste dentro, come memoria non consapevole. La melodia principale l’ha trovata Erica al piano e mi ha portato subito in quel mondo cinematico. Non è un caso che un altro dei protagonisti del brano sia Massimo Martellotta dei Calibro 35 il quale è abituato a sonorizzare il cinema. Il suo gruppo è nato con l’intento proprio di recuperare le atmosfere delle colonne sonore dei film polizieschi degli anni Sessanta e Settanta. Lui stesso ha scritto delle musiche per film (è appena uscita la sua colonna sonora di un documentario sugli Azzurri del 1982) e ci ha mandato delle parti di tastiera così ricche che abbiamo poi deciso di utilizzarle anche per il remix presente nel secondo disco. Tutte le tracce che avevamo dovuto tenere chiuse perché sennò il brano sarebbe stato preso da una sorta di fastidioso horror vacui. 

Molto interessanti sono le sperimentazioni nelle quattro parti di “Sisma” della durata di poco meno di un minuto. Servono a spezzare la tensione, ma anche a chiudere ed aprire parti diverse dell’album…
Servono a tutto questo, ma anche ad altro. Avere dei pezzi così corti, tutti della stessa durata (42 secondi) è intanto un gioco, uno sfizio da studio di registrazione. Ci siamo messi alla prova provando a comporre quattro frammenti sonori che avessero un senso anche con una breve durata. Li abbiamo inseriti anche per rendere più equilibrata la scaletta, perché ci sono tanti brani nell’album e abbiamo cercato di evitare di mettere in fila due brani con lo stesso mood, la stessa atmosfera. Questi piccoli e brevi spaccati sono, dunque, fondamentali anche per questo.

Altro vertice del disco è la già citata “More Overtones”…
La prima versione, molto dilatata, si intitola “Overtones Remix” è nel secondo disco e dura oltre sette minuti. Una lunga cavalcata in cui si susseguono diversi interventi strumentali, piccole sorprese glitch, violini distorti e quant’altro. Poi abbiamo, però, abbiamo capito che se comprimevamo la durata e chiamavamo qualcuno che avesse un’idea per un testo e una parte vocale, poteva venire una cosa interessante. Ho pensato, così, a Luca Andriolo che, oltre ad essere un amico è un artista dall’approccio sempre molto interessante. Lui ci ha regalato innanzitutto il suo testo che ha seguito le ispirazioni delle “overtones”, una richiesta di attenzione alle sfumature che sta dietro al concept ispirativo del disco, e poi ci ha messo la sua vociona. E’ veramente incredibile e molto credibile, perché ha un timbro fenomenale e pronuncia l’inglese in modo impeccabile. E’ venuta fuori una cosa un po’ vicina a Tom Waits, un po’ a Nick Cave e a Mark Lanegan. Ci sono questi amori che sono nostri, ma anche suoi e del suo gruppo: i Dead Cat in a Bag. Tutto questo ha fatto sì che anche questa fosse una collaborazione molto fertile. Lui ha registrato tutto da solo in Piemonte e poi ci ha mandato le tracce. Era un piccolo salto nel buio, ma abbiamo goduto moltissimo quando abbiamo sovrapposto la sua parte vocale alla nostra traccia e abbiamo capito che ci era entrato dentro benissimo. 

Da dove è nata la scelta di unire al disco principale un compendio di remix?
Fare un doppio album di questi tempi è una follia perché tutti dicono di non fare dischi lunghi con brani lunghi, così come dicono di far uscire un brano alla volta. Noi abbiamo fatto esattamente il contrario e ce ne freghiamo abbastanza delle tattiche di marketing che saranno certamente vere e giuste per altri generi
musicali, ma per il nostro che è così bizzarro ci concediamo il fatto di non prenderle in esame. Avevamo voglia di vestire ex novo i nostri stessi pezzi e dargli subito un altro abito che fosse quello di un producer o di un dj o di un musicista che stimavamo e sapevamo che gli avrebbe dato una forma completamente diversa e in alcuni casi anche lontana dalla nostra poetica. La sorpresa in questo caso ci sta, eppure tutto quello che è venuto fuori ci è piaciuto molto. Abbiamo visto e apprezzato punti di vista differenti sui nostri brani. Ad esempio Filoq, che è un producer ed è il responsabile di tutte le basi dell’Istituto Italiano di Cumbia e ora guida con Raffaele Rebaudengo il progetto Stellare, ha trattato “Walking Wild” in modo molto pesante facendolo diventare qualcosa di molto diverso dall’originale sul primo disco. Nonostante ciò ci piace molto e lo sentiamo nostro, tanto è vero che il secondo videoclip uscito è proprio con quella versione lì.

Dal vivo sperimenterete anche incontri con dj e producer o sarà un concerto che legato sostanzialmente al primo disco?
Gli ospiti ci saranno sempre quando sarà possibile. Abbiamo fatto già un concerto a Roma dove ci ha raggiunto Luigi Cinque, mentre a Torino è venuto Luca Andriolo, tra l’altro non cantando solo “More Overtones” ma inventandosi appositamente delle sezioni con voci e testi per altri brani nostri. Ospitare i producers è un po’ più complicato perché anche noi abbiamo molti loop da mandare, che sono gestiti ora da Gaetano Alfonsi, il nostro attuale batterista. Certo si potrebbe provare ad incrociare le cose, ma dovrebbe essere un progetto speciale, il che presuppone delle prove e un lavoro complesso sugli “strati” elettronici con cui lavoriamo. Invece un musicista lo si può 
ospitare al volo come membro instabile per una serata. Abbiamo sempre avuto guest nei nostri concerti e continueremo ad averne. 

“Ovetones” è un disco spartiacque che lascia intravedere nuove traiettorie future da percorrere…
Siamo molto soddisfatti di questo album, delle recensioni positive, così come tutto quello che sta succedendo attorno anche dal punto di vista radiofonico. Abbiamo avuto attenzioni che in passato non erano mai scattate e questo grazie anche al lavoro del nostro ufficio stampa, Guido Gaito. Certo bisogna sempre sgomitare perché non è una proposta di facile appeal e c’è bisogno che ci sia qualcuno attento che abbia le antenne su per raccogliere questa sfida. Quel che è certo è che dal vivo ci divertiamo di più a suonare i nuovi brani, li abbiamo calibrati bene e soprattutto non mi stancano se li riascolto. Questa cosa è una bella vittoria. Solitamente faccio una grande fatica ad ascoltare i brani vecchi, evito perché il riascolto diventa un calvario, ci trovo tutti i difetti, i timbri che spingerei di più o di meno, le spazializzazioni che non mi convincono più. Con “Overtones” non succede, o almeno ancora non è successo. Su quello che innescherà in futuro non ho idea. Sicuramente ripartiremo da qui, ma ora siamo concentrati a portarlo in tour.

Concludendo. Il cantiere creativo degli Interiors riserva sempre sorprese. Avete in programma progetti collaterali?
Parallelamente al tour, continueremo con le sonorizzazioni dal vivo che abbiamo sempre fatto e continueremo a fare. Ne stiamo preparando una per il primo settembre a Bologna, che riguarda due capitoli dei tre di cui è composto il film “Fata Morgana” di Werner Herzog. Lui è un maestro assoluto e siamo innamorati del suo cinema. Abbiamo scelto questo film che funziona benissimo anche senza l’audio originale, perché ci sono pochissimi dialoghi. Sembra fatto per essere sonorizzato di nuovo. Come sappiamo le colonne sonore dei film di Herzog sono già bellissime, ma noi proviamo comunque a dargli un vestito nuovo. È un po' come se stavolta il remix lo facessimo noi. Anzi è qualcosa di più sostanziale: si tratta di materiale “re-composed”, creato ad uopo per fungere da nuova colonna sonora.   


Interiors – Overtones (Sisma Records/Audioglobe, 2022)
Frutto di due anni di session tra Marche ed Emilia-Romagna, “Overtones” segna un ulteriore evoluzione del percorso di ricerca musicale, intrapreso nel 2012 da Valerio Corzani (basso elettrico, voce, devices elettronici) e Erica Scherl (violino, tastiera, effetti e looper) con il progetto Interiors che si conferma come una delle realtà più interessanti della scena musicale italiana per originalità della cifra stilistica e vitalità creativa. Non è un caso, infatti, che dall’intenso lavoro in studio abbia preso forma un doppio album con quattordici brani originali di cui nove proposti in versione remix, nel secondo disco, con la complicità dei producer Filoq, Vinx Scorza, Manuel Volpe, DLewis e Francesco Colagrande. Se in apparenza i riferimenti stilistici e compositivi sembrano essere i medesimi dei precedenti album, andando più a fondo nell’ascolto si scoprono sorprendenti addentellati ispirativi che affondano le loro radici in film, dischi, letture, ma anche incontri e collaborazioni, un fertile humus dal quale hanno preso vita composizioni sospese tra presente, passato e futuro, tra atmosfere dal taglio cinematografico, suggestioni oniriche ed evocazioni distopiche. Anche in questa occasione, ad affiancare il duo troviamo alcuni ospiti d’eccezione come Luca Swanz Andriolo (voce), Marco Zanotti (batteria e percussioni), Massi Amadori (chitarra elettrica), Luigi Cinque (digital sax), Gianfranco De Franco (clarinetto basso), Camilla Serpieri (hukulele) e Massimo Martellotta (tastiere). Tra incroci ed attraversamenti sonori, l’ascolto mette in luce la ricercatezza delle strutture ritmiche ed armoniche su cui si innestano soluzioni melodice mai scontate, costruzioni elettroacustiche, incursioni nei territori del jazz ed echi di musica world e dub. Ad aprire il disco sono le atmosfere rarefatte della dolce “Little lullabye” che in “Ghost Town” lasciano il posto ad una ambientazione sonora desolata, ma non per questo meno affascinante dal punto di vista della costruzione poetica del brano. Le increspature elettroniche del breve frammento “Sisma I” ci introducono al primo vertice del disco con la splendida “Due di due”, una narrazione densa di lirismo, ispirata dal romanzo omonimo di Andrea De Carlo ed impreziosita dal superbo solo di Luigi Cinque al digital sax. Altra perla è “More Overtones”, brano nato dalla collaborazione con Luca Swanz Andriolo che ne ha firmato il testo e,  con la sua voce intensa, danza sulle corde degli archi, sostenute dalle ritmiche dub del basso. Se l’elegante architettura sonora costruita dal violino in “The Goat And The Fox” rimanda ai dischi della Penguin Cafe Orchestra, la successiva “Darker” è giocata su un eclettico crescendo che parte dal dialogo tra gli archi e la chitarra elettrica di Amadori che si scioglie nel ritmo in levare per giungere alle distorsioni industrial nella parte finale. Si prosegue con la bella sequenza in cui fanno capolino la superba “Walking Wild”, la dolente “Banditos” e le sperimentazioni dub cameristiche di “Too Close”, per toccare un altro vertice dell’album con la morriconiana “Alaska in Mumbai”. Il frammento “Sisma II” ci conduce verso la conclusione con affidata alle affascinanti “Waiting For” e “Cerimony” nelle quali si intravedono le possibili nuove rotte da esplorare per il futuro tra esperimenti ambient e incursioni nella world music. Non meno affascinante è il secondo disco, aperto dal magnifico remix di “Walking Wild” ad opera di Filoq e nel quale riascoltiamo in una nuova contestualizzazione sonora “Walking Wild” e “Bandits” ma soprattutto “Due di Due” rielaborata con Roberto Passuti e in cui spicca il magistrale lavoro alla tastiera di Massimo Martellotta dei Calibro 35. Insomma, “Overtones” è un lavoro di assoluto spessore artistico e musicale che non mancherà di catturare l’attenzione degli ascoltatori più attenti e curiosi. www.facebook.com/corzanischerl - www.instagram.com/interiors_corzani_scherl


Salvatore Esposito

Foto di Paolo Soriani (1-7)

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