Deep Med: tecniche e strumenti migranti. La tradizione nel moderno (prima parte)

Benché non più fenomeno originale, oggi è più che mai utile al linguaggio musicale la migrazione di strumenti (organologie e tecniche) della tradizione popolare ed etnica verso contesti “di area eurocolta” classica, orchestre, ensemble di jazz, contemporanea et altro. Lo stesso vale in linea diacronica, commisurando epoche diverse: si pensi a organologie e stilemi medievali o rinascimentali o a tecnologie popolari di un tardo Settecento (nel caso di aereofoni a sacca o corde ad alta risonanza) che, oggi, vengono richiamati nel flusso della musica attuale.
Sono connubi, integrazioni, migrazioni vere e proprie. Contaminazioni che, restando ai nostri tempi, cominciano ad accadere più frequentemente in musica nello scorso secolo e hanno, come protagonisti, compositori del Novecento della “neue musik” europea. A parte gli amori di Debussy per il Gamelan Balinese, le profondità di ricerca di Bartok nel mondo contadino romeno/ungherese, di Carl Orff e i suoi fantastici Carmina Burana e di altri (tanti!) come loro che sentirono giustamente il fascino (e la verità) del folklorico senza tuttavia uscire mai dalle linee eurocentriche, furono invece i giovani post Darmstadt 1, quelli che avevano trent’anni nei Sessanta del Novecento, che appartenevano al dibattito musicale postbellico, che in definitiva, attraversando le rivoluzioni di pensiero e costume terzomondiste di quegli anni, ebbero il coraggio (ché di coraggio si trattava nel paludato mondo accademico di allora) di utilizzare strumenti e vocalità diverse. Un gesto che, accogliendo la diversità subalterna o etnica o d’altro colore, dentro l’orchestra e nelle sperimentazioni elettroacustiche di allora, diventava simbolicamente forte e politico. 
Cito fra tutti Karlheinz Stockhausen e il suo lavoro con molte timbriche etniche e popolari (tamburi a cornice orientale, le tabla etc.). Tutto ciò oggi sembra lontano, quasi irreale. Oggi che il cuore della world music batte con l’ibridazione organologica di strumenti classici e temperati, anche elettrici, con i corrispettivi folklorici, più propriamente etnici o solo antichi. Nonostante sia divenuto persino un vezzo - anche un po’ banale – fare sfoggio di timbriche esotiche, la diffusione e il confronto o il riuso di strumenti tradizionali nei repertori moderni, ha attivato, negli ultimi anni, una evoluzione delle tecniche di costruzione e conseguito mirabolanti pratiche di esecuzione. In altre parole, dovendo stare al passo con la velocizzazione dei ritmi e delle tonalità, dovendo camminare insieme a strumenti di buon lignaggio come violini, celli, trombe, clarinetti e altri fiati ad ancia semplice, gli strumenti tradizionali sono diventati più duttili, più efficienti, con tenute accordali garantite, tonalità più sicure. Altra cosa sono le vere e proprie sostituzioni di funzione: come nel caso del più duttile (ma generico) organetto al posto della zampogna o delle launeddas o, in altre latitudini, le tastiere elettriche Farfisa al posto del mitico organo a soffietto a mano dell’area Indiana. Il fenomeno della migrazione organologica è decisamente più evoluto nei paesi dell’Europa continentale come Francia, Germania, Nord Scandinavo, Spagna piuttosto che in Italia dove – pur essendo stati un’avanguardia nelle
riletture del patrimonio tradizionale – oggi involviamo – molto spesso - in riflessioni popolaresche. Si cammina frenati. L’analfamusica (per dirla alla Carpitella) gestisce buona parte del mercato. Nei programmi dei festival o nei premi specifici (non tutti, si capisce!) vige un clima di familismo insopportabile. Così, mentre altrove la domanda da parte di Enti Istituzionali anche Europei, si rivolge a formazioni (tra tradizione e nuova scrittura) la cui ricerca e capacità esecutiva è già molto “progressive”, da noi – permeato dall’ignoranza di amministratori “para-illuminati”, di Editori e di Programmi Universitari permanentemente indietro di lustri e lustri – promana un manierismo folkloristico “organettante”, “paratarantato”, perduto nei polimeri di terza delle Belle Ciao. Il danno lo pagano i giovani, tra i quali, va invece detto, crescono in abbondanza solisti eccezionali, liutai intelligenti e innovativi, e un ascolto – spesso inascoltato – attento e colto.

Alcuni strumenti
Da diversi anni ormai seguo, per mie ipotesi compositive, l’evolversi di alcuni strumenti tradizionali e la loro maturazione in chiave di confronto con gli habitat del moderno, non esclusa l’elettronica. 
Ce ne sono tanti che per motivi strutturali si sono adeguati immediatamente: in genere sono gli idiofoni che – secondo la classificazione Hombostel Sachs – sono quelli che risuonano con il corpo stesso dello strumento, senza l'utilizzo di corde o membrane e senza una colonna d'aria fatta vibrare. Ne abbiamo tanti di questo genere: campane, campanacci, tubulari vari, trick e track, tubi, ma anche bombole a gas, cassettoni e molti altri. Non dimentichiamo che il mondo popolare di tradizione ha sempre mantenuto il doppio uso funzionale degli utensili, in chiave quotidiana e in chiave rituale e sonora: archi che diventano lire o cordofoni, pentole, cucchiai, corni da caccia, sedie. Molti di questi furono poi ripresi in carico da quella corrente degli anni Sessanta (primo grande ponte interculturale ) quale fu appunto la Musica Concreta (“Traitè des objects musicaux” di Pierre Shaeffer). Gli strumenti a membrana – tornando al nostro discorso e sempre nei nostri ultimi decenni – hanno attraversato diverse mutazioni genetiche, ora tecniche ora persino organologiche. Tammorre e tamburelli ad esempio. Su questi, molti strumentisti hanno affinato la tecnica importando modi esecutivi, posizione della mano, autonomia digitale, suddivisione digitale battente. da altre culture com’è quella del pandero ispanico/brasilero protagonista del Samba e della Capoeira insieme al Berimbau, o del suo parente prossimo presente nelle aree indiane ma anche nel Caribbe più profondo. Fatto sta che da noi oggi alcuni suonatori di membrane a cornice tradizionali agiscono nella categoria del jazz, del rock di nuovo conio o sui dettami della scrittura contemporanea orchestrale o di piccoli ensemble. 
Si possono fare infiniti nomi al riguardo. Ho conosciuto – e condiviso la scena – con molti esecutori straordinari, li ho ascoltati con attenzione e insieme abbiamo composto musica proprio sulle possibilità nuove del loro strumento. Un antesignano è l’amico Carlo Rizzo che già negli anni Ottanta iniziò questo percorso di evoluzione sul tamburello. Non solo di tecnica esecutiva ma anche organologica aggiungendo allo strumento una serie di tasti che estendevano più o meno la membrana procurandosi al volo intonazioni diverse. Questo a mio parere è il senso vivo della tradizione oltre ovviamente al recupero dei classici che vale – penso – più che altro per quelle culture che hanno una loro classicità codificata. Per noi soprattutto il medioriente Sufi. Già l’India è altra cosa.  
(fine prima parte - segue)

Luigi Cinque

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1 Darmstadt. in seguito ai corsi di Musica contemporanea creati nel 1946 da Wolfgang Steinecke e frequentati da molti compositori del tempo, diventa un centro un centro di riflessione e uno dei principali centri mondiali per la musica contemporanea. 

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