Dopo tre dischi in coppia con Ilaria Graziano, per Francesco Forni è arrivato il momento dell’esordio solista. “Una sceneggiata”, questo il titolo del suo lavoro, è il suo primo disco interamente scritto in napoletano, ed è un vero e proprio concept- album, che ruota attorno alla figura di Spacciatore, personaggio che prende le mosse dall’omonimo spettacolo teatrale di Pierpaolo Sepe ed Andrej Longo. Tredici tracce “di strada” per raccontarci di una storia pulsante di vita e fortemente attuale, una specie di dramma classico dei nostri tempi, in cui Spacciatore, pusher della piazza de La Sposa, si innamora di una studentessa fuori sede, andando incontro a conseguenze drammatiche, risolte solo dal sacrificio di Dragonbol, vero e proprio deus ex- machina di questa storia. Disco aperto dai toni epici di “Dragonbol”, episodio che fa, letteralmente, da preludio alla storia che si snoderà nel corso del disco. Toni acustici, una chitarra acustica ad arpeggiare ed i fraseggi di glockenspiel a regalare colore, con la citazione iniziale a “Jesce, sole”, qui intesa come vera e propria preghiera laica, a segnare la strada. “Spacciatore”, brano che Forni ha presentato all’ultima edizione di Musicultura, segue le trame blueseggianti di un cupo strumming di chitarra acustica, innervosito dalle svisature della chitarra elettrica e da un pattern ritmico serrato ed acido. Anche “Pure si fosse” è affondato in un interessante connubio fra tammorre e schitarrate caustiche, con una tempestosa sezione ritmica a far da sfondo al fuzz della chitarra elettrica ed i fraseggi di un liuto a pitturare d’acustico. “La sposa” si muove lungo i bui arpeggi terzinati di una chitarra acustica, ulteriormente rarefatti dagli inserimenti della chitarra elettrica e dai vorticosi movimenti ritmici di tammorra e batteria. “Serenata” è uno squarcio di purezza che rischiara il paesaggio in minore affrescato fino a questo momento: uno splendido intreccio di voci armonizzate si poggia splendidamente su un tessuto strumentale scandito dallo strumming di una chitarra acustica e dalle aperture della viola portoghese. A chiudere il lato A del lavoro ci sono i sapori jazzati di “Padre”, con i dolci fraseggi del pianoforte che poggiano su un delicato strumming di chitarra, addolcito dalle aperture di un violoncello e da un pattern ritmico polveroso. Il lato B comincia con la title- track, tema strumentale guidato dalle trame affascinanti di archi e fiati, con la chitarra elettrica a suonare il tema vero e proprio, ed i fraseggi dei mandolini a spostare l’atmosfera su accenti partenopei, in quello che è un affresco raffinatissimo degli umori e dei sapori di Napoli. Una cassa dritta scandisce “Gelusia”, mossa da un dinamico arpeggio di chitarra acustica e da una vorticosa linea di basso. “Addore ‘e primavera” è una ballad costruita sullo strumming serrato di una chitarra acustica, contrappuntato dai fraseggi- dal vago sapore western- di una chitarra elettrica, e da quelli più mediterranei di una viola amarantina. Un morbido e denso tappeto di archi accoglie “Notte scura”, in un crescendo di lirismo e pathos che segna indelebilmente il pezzo. “Mercuzio” si muove lungo gli intrecci costruiti da un ipnotico giro di basso e synth, sottolineati dalle tensioni di una chitarra distorta e dalle incursioni nervose di tromba e flicorno. Il tempo compassato di “Perduto” ci riporta verso timbri mediterranei, con un sabbioso pattern ritmico ad accompagnare il malinconico arpeggio di una chitarra acustica, colorato dalle incursioni del vibrafono e liberato dalle aperture della sezione archi. Ultimo passaggio dell’album è la delicata “Prenditi cura di me”, scandita da un raffinato arpeggio di chitarra acustica, contrappuntato dai fraseggi della viola amarantina e colorato dagli ostinati della sezione archi. In conclusione, ci troviamo all’ascolto di un disco da “cantautore vero”, profondamente politico e popolare nella sua accezione più pura. Un racconto pulsante, ed a tratti ruvido, della Napoli più spigolosa, spaccato vero di una vita altrettanto vera.
Giuseppe Provenzano
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