Leila Maria – Ubuntu (Biscoito Fino, 2022)

“Sono felice perché non solo professionalmente, ma anche personalmente ho potuto tuffarmi nella dimensione ancestrale e scoprire di più su di me. È una catarsi”
, ha raccontato Leila Maria a proposito di “Ubuntu”, il suo sesto album. Prodotto da Guilherme Kastrup, l’album è imperniato su nove composizioni di Djavan, sulla cultura afrobrasiliana, sui legami fra donne, con Ana Basbaum alla direzione artistica e la partecipazione della cantante mozambicana Selma Uamusse, della cantante, compositrice e chitarrista congolese Zola Star e di Maria Bethânia in “Seca”. Con questo disco la cantante carioca propone un ponte sonoro nel tempo e nello spazio fra la sua generazione e quella di Djavan (oggi sessantaseienne), originario di Alagoas, scegliendo come principale centro gravitazionale l’Africa. Ubuntu è la prima parola che si ascolta nell’album, omaggio alla lingua Quimbundo, di origine bantu, oggi riconosciuta anche dall’Unesco come sintesi di una filosofia che ci ricorda che “siamo attraverso gli altri”. Qui viene associata a un brano che è particolarmente significativo rileggere trentacinque anni dopo: “Soweto” fu pubblicata nel 1987 e cantava ad un tempo la lotta del popolo sudafricano e di quello brasiliano: “Il popolo vuole fiorire/E prendere vita”. Leila Maria, inserisce nel brano di Djavan, scritto durante l'apartheid, le chitarre ed un brabo di Zola Star – “Tobina”, sospinto dalle percussioni di Kastrup (atabaques, congas, tama, xequerê, batteria) e dal basso del congolese François Muleka.  Dello stesso periodo è anche l’ultimo brano, “Seca” (1986), dove sono protagonisti il piano di Maíra Freitas e, nelle sequenze iniziali e conclusive, la voce di Maria Bethânia, a dar corpo ai versi di Djavan che denunciano nel Nordest brasiliano: “La fame che umilia tutti e la vita che si nutre di dolore” nelle retrovie del Nordest. La ballata “Meu bem querer” va a pescare a ritroso nel tempo, nel 1980, e mette a segno l’incontro più azzeccato dell’album, quello con cinque voci maschili, il coro Vocal Kuimba, cui hanno dato vita a São Paulo alcuni studenti angolani. Qui l’arrangiamento è affidato a Christiano Santos e sa avvolgere il classico di Djavan in una trama capace di avvolgere i versi dolenti in un flusso sonoro che sa di calore e consolazione.  A intrecciare voci fra Brasile e Africa Australe contribuisce poi “Asa” (1986) che si apre con Leila Maria e la cantante mozambicana Selma Uamusse a spiccare insieme il volo sulle ali di una lingua declinata con due musicalità complementari. Anche “Oceano” (1989) va a pescare aldilà dell’Atlantico, questa volta il balafon e lo ngoni maliani, suonati da Ahmed Fofana e da Assaba Drame, relativamente in ombra rispetto al violoncello di Jonas Moncaio e alla chitarra di Milton Gulli; un brano cui la sezione ritmica, Ana Karina al basso e Kastrup alla batteria, imprime un andamento binario forse più radiofonico, ma anche meno interessante rispetto ad altri arrangiamenti. Una bella reinvenzione caratterizza “Aquele um” (scritta da Djavan e Aldir Blanc nel 1980) che qui si sposa con “Fato Consumado” (1975) letteralmente sospinti da una cadenza che richiama i riff dello zouk e della rumba congolese, ma anche la musica juju e dai due fiati: Richard Fermino (ottavino, flauto, sax tenore e sax baritono) e Sintia Piccin (flauto e sax tenore), lasciando spazio a Leila Maria per una serie di scat e per un finale tutto voci e percussioni sul tema tradizionale “Ponto de Exu Tiriri”, solo accennata e poi sfumata, a evocare una fonte lontana, ma inesauribile. 


Alessio Surian

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