La Rosta – Hotel Colonial (New Modern Label, 2022)

A sei anni di distanza da “Roba Lieve”, il loro debutto, ritorna - in formazione ampliata - La Rosta, supergruppo formato da Max “Ice” Ghiacci dei Modena City Ramblers (voce, chitarra acustica, mandolino, armonica, sintetizzatore e percussioni) e Marco Vincenzo Ambrosi dei Nuju (chitarra acustica ed elettrica, bouzouki, mandolino, percussioni, voci e cori), a cui si è aggiunto Andrea Rovacchi dei Julie’s Haircut (sintetizzatore, pianoforte, organo, batteria e percussioni), che si è occupato anche delle registrazioni e della produzione del nuovo album “Hotel Colonial”, quasi un topòs letterario, che si fa snodo di storie, uomini e letterature. Ad aprire il disco è proprio la title- track (“Vieni con me a guardare la luna/ E a occhi chiusi trovare risposta/ Alla nostra faccia nascosta”), scandita da un sabbioso e spazzolato pattern ritmico, poggiato su un largo tappeto di organi e colorato dai fraseggi di una chitarra acustica. Splendida la scarica di folk purissimo che arriva da “Con la poesia” (“Forse sarà con la poesia/ Senza bisogno di un perché/ E non guardando più al futuro/ Con tutto quello che non c’è”), con le spettacolari trame cucite dal bouzouki e dal violino di Lorenzo Iori a far da rustico contraltare agli squarci elettronici del sintetizzatore. “Sul filo” (“Troppi sguardi vuoti per un po’ d’ebbrezza/ Per far passare il tempo e abbracciare la stanchezza”) è una muscolare cavalcata animata dallo strumming di una galoppante chitarra acustica, sotto cui si agita una caleidoscopica foresta di synth. A scandire i ritmi nebbiosi di “La ragazza con il piercing nel cuore” è un arido strumming di chitarra, animato dalle svisature dell’organo e, soprattutto, da una avvolgente linea di basso. “Odore di miscela”, aperta da una sghemba armonica, è una ottima prova di rogue folk, con delle chitarre forsennate, un basso cavalcante, voce megafonata e gli squarci dell’armonica ad irruvidire ulteriormente la dinamica. A fare da momento spartiacque del lavoro ci pensa “La stanza chiusa”, momento strumentale in cui l’intreccio fra le trame di bouzouki e mandolino colora il denso strumming della chitarra, mentre dei languidi accenni di synth regalano al brano ulteriori nuances evocative. Anche “Ramingo” (“Se devo morire, meglio morire al sole/Incontrando disperati come me”) , cantata da Ambrosi, segue le trame di una scheletrica ballata, sostenuta dalla chitarra acustica e contrappuntata dai fraseggi del pianoforte e dalle scariche elettriche della chitarra. “I denti del cane” (“Dimmi tu dove sta il cielo/ E quale terra va calpestata/ Di male in bene, di bene in male/ Gli dèi malati vanno in parata”) gioca, ancora una volta, sull’incastro- ben riuscito- fra chitarre acustiche, che riescono a rendere perfettamente, complice un incedere ritmico compassato, un paesaggio arido, in cui le note del synth suonano come raminghe gocce di pioggia. “Una vita insieme”, al netto di un andamento meno polveroso, segue, nelle strofe, una dinamica molto simile, fra chitarre acustiche e sintetizzatori, per poi esplodere, nel ritornello, in un tripudio di nervi elettrici e tappeti d’organo. La penultima tappa di questo viaggio è “L’uomo in grigio” (“Finché l'inverno un giorno mi ha preso per la mano/ E foglia dopo foglia ho costruito la mia stanza/ Secca, fredda e sterile per custodire assenza”), pezzo scandito, anche in questo caso, da una chitarra acustica, su cui si poggiano i tremolanti fraseggi del violino, che scandiscono anche la tempestosa coda strumentale. A chiudere il disco ci pensa “Non c’è più tempo” (“Il mondo è cambiato e la gente si perde/ In questa che si vuole far sembrare realtà/ Non c’è tempo per cercare/ Non c’è tempo per scoprire/ Per leggere ancora oltre le nostre righe”), in cui delle spastiche spruzzate di elettronica strappano la sezione ritmica quasi come una tela di Lucio Fontana. In conclusione, “Hotel Colonial” ha il merito di raccontarci di una umanità in cammino perenne ed in stasi solo momentanea, in cui l’hotel fa solo da cornice, da punto di ritrovo di tutte le storie che lo animano, e di farlo con una pasta musicale altamente evocativa, che sa di vento in faccia e di notti nel deserto. 


Giuseppe Provenzano

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