Araputo Zen – Majacosajusta (Nowords/Self, 2021)

Dalle procedure ondivaghe della prima traccia, intitolata “Drummond nel vento”, emerge l’estetica nomade del quintetto napoletano che, a sei anni dal debutto “Hydrontum” (2016) – un ritardo dovuto all’emergenza pandemica – torna in pista con “Majacosajusta”, pubblicato dal Nowords, costola di musiche no border strumentali della label napoletana Soundfly. Senza mezze misure e con genuino cipiglio assertivo presentano questo secondo album come “il riassunto di tutto quello che ci sconsigliano di fare. Frutto di anni di lavoro e di sacrifici, di piccole conquiste e di tanto sudore e sofferenza, ma non solo questo; è frutto di una ricerca spassionata volta verso la bellezza e la verità, senza compromessi”. Le cronache dicono che Araputo Zen sgorga dalle strade della città porosa e va detto subito che dalle sedimentazioni sonore che animano la metropoli sud mediterranea si condensa “Maiacosajusta”, opera cantiere di memorie, dove si incontrano conoscenze, stili e passioni, in un filo che intreccia rock e folk prog, tinte psichedeliche, jazz e calore latino-americano. Una condizione di apertura totale che è tutta nella singolare esclamazione che dà nome alla band e nelle diverse estrazioni musicali dei membri del gruppo. Il composito strumentario indica il cammino ibrido dei cinque musicisti, che sono Dario De Luca (chitarra elettrica, mandolino, voce), Alfredo Pumilia (violino), Valerio Middione (chitarra), Pasquale Benincasa (batteria, percussioni, vibrafono) e l’onnipresente Bruno Belardi (contrabbasso), strumentista che riempie della sua tecnica molte formazioni nate all’ombra del Vesuvio e che firma due dei sette brani della tracklist, mentre tutti gli altri sono di Dario De Luca. La produzione è dello stesso gruppo e di Pietro Santangelo; l’album è stato registrato all’Auditorium Novecento di Napoli da Fabrizio Piccolo. Passata la scorribanda improvvisativa del tema d’apertura, incontriamo l’instabile milonga “Makipegua”, altro episodio di partenza, di approdi e ritorni, cui seguono gli 59 secondi di “Venerdì mattina” (con i field recording che evocano i riti della Settimana Santa a Procida), un’intro che sfocia nei transiti danzanti di “Vefio”, aperto dal richiamo al ballo popolare dell’entroterra partenopeo, per poi squarciarsi verso orizzonti jazzati e riempirsi degli umori salmastri e saraceni della piccola isola del Golfo di Napoli (il titolo fa riferimento al muretto di una balconata o terrazza molto comune nell’architettura isolana). Nella sospesa tensione iterativa di “Algheritmi” prende il sopravvento il coté prog della band, mentre “(In)Sanità”, ispirato al popolare quartiere partenopeo, è un’altra fusione, questa volta a carattere zorniano, di storie sonore. E pazienza se in queste progressioni in note ci troverete qualcosa di già ascoltato o che rimanda ad altri tempi, ad altri artisti e ad altre utopie: è comunque un bel sentire! Infine, arriva “Majacosajusta”, titolo guida e summa di una scrittura che gioca sugli intarsi di senso melodico, potenza ritmica e voli armonici. A dirla tutta, il titolo suona proprio scaramantico, perché la cosa giusta l’orchestrina Araputo Zen l’ha fatta per davvero, producendo un piccolo grande disco che conferma le virtù creative e la salutare spudoratezza di chi suona dando lustro alle proprie passioni. 


Ciro De Rosa

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