A marzo 2019, nell’intervista in cui Blogfoolk aveva coinvolto Maria Moramarco, Silvio Teot e Luigi Bolognese, quest’ultimo ricordava come il “lavoro di ricerca svolto da Maria Moramarco ha portato alla luce oltre 150 canti di una tradizione che per molti addetti ai lavori era ritenuta marginale”. Grande voce mediterranea dalla grana unica e fascinosa, Maria Moramarco è una ricercatrice, caparbiamente impegnata a trasmettere la memoria dei repertori dell’Alta Murgia barese con gli Uaragniaun, di cui, dal 1977, è il cuore progettuale e, di tanto in tanto, in solo, come è ora per “Stella ariènte”, un viaggio nei tesori inestimabili del canto religioso dialettale (liriche devozionali, canti di pellegrinaggio, preghiere arcaiche e litanie) che ben si adatta alla potente vocalità di una cantante che è erede di cantatrici e cantatori, è mediatrice delle forme musicali di tradizione orale. Entrato in questo inizio d’anno tra gli album della prestigiosa Transglobal World Music Chart, “Stella ariènte” è anche espressione di un folto gruppo di musicisti dalla bella sensibilità. Andiamo ad approfondire questo lavoro con l’artista altamurana.
Quale percorso canoro proponi in “Stella ariènte”? Cosa collega musicalmente i diversi luoghi da cui provengono i repertori che canti?
Il percorso canoro che propongo in “Stella ariènte” si compone di tre nuclei tematici della tradizione religiosa: il racconto della Passione, i pellegrinaggi, la vita dei santi. I repertori che canto, sebbene presenti con varianti testuali anche in altre zone della Puglia, provengono dall’ Alta Murgia Barese e sono
accomunati da una particolare forma espressiva centrata sulla vocalità più che su tradizioni legati a specifici strumenti
Alla base c’è il tuo ascolto e raccolta sul campo: vuoi raccontarci qualcosa a proposito delle persone e dei contesti in cui hai appreso questi canti?
Ho avuto il privilegio di aver appreso gran parte di questi canti dalle persone che sono stati gli ultimi depositari di questo patrimonio orale, appartenendo io a quella generazione di mezzo che è stata testimone di un passaggio epocale dalla civiltà rurale e alla civiltà postmoderna e digitale. Tra le persone che mi hanno aiutata a costruire questo mosaico della memoria, e che se ci penso sono davvero tantissimi, mi sembra doveroso citare e ringraziare coloro che sono state determinanti per questo lavoro: Grazia Moramarco (1922-2012) mia zia paterna, a lei devo esperienze dirette, oltre che racconti e ricordi di cammini e pellegrinaggi, Maria Cristallo (1922) mia informatrice ”storica” alla cui memoria devo canti religiosi come anche gran parte del repertorio elaborato con Uaragniaun, Orsolina Calia (1926-2020) Laura Lomurno (1925) . Ho inoltre consultato e confrontato materiale edito in zona, in particolare per i canti della passione, i testi della pubblicazione “U Wenerdìa Sante” (1981) del sacerdote Diego Carlucci di Altamura.
C’è un rapporto tra la letteratura religiosa e la drammatizzazione ad uso popolare?
Basta pensare alla drammatizzazione della passione di Cristo che ha origini medioevale che ancora oggi nei vari paesi vede partecipazione e interesse. La drammatizzazione ad uso popolare è stata senza dubbio una forma di letteratura religiosa comprensibile alle masse e con funzione didattica. In particolare Pier Paolo Pasolini nel Canzoniere Italiano: antologia della poesia popolare (1955 ) sostiene che la Puglia è eletta nel rappresentare una forma particolare di poesia popolare e che proprio il “capitolo” di Iacopo di Galizia, di cui ho utilizzato una piccola parte, arrivato a noi per via orale da un tale Marino di Altamura, è da collocarsi tra la poesia semi-popolare a stampa e costituisce un raro esempio di letteratura religiosa delle origini, il poemetto narra di un miracolo registrato negli Acta Santorum. Esso fu pubblicato per la prima volta da Ezio Levi nel 1934 e qualche anno dopo documentato nella forma testuale da Anna Tragni
nella pubblicazione “I canti della Murgia e il capitolo di San Jacopo” (1937), Altamura, da un contadino di ottant’anni.
Quale ruolo aveva la Puglia nei pellegrinaggi medievali?
La Puglia aveva un ruolo davvero importante nei circuiti di pellegrinaggio del Medioevo e della prima età moderna, per via della privilegiata posizione geografica, la regione metteva in collegamento i santuari di San Iacopo in Galizia e di San Michele Arcangelo sul Gargano il Soglio di Pietro e il Sacro Sepolcro in Terra Santa. Per chi volesse vi sarebbe un interessante saggio di analisi a questo proposito, “Verso San Giacomo di Compostella: l’esperienza del pellegrinaggio fra tradizione agiografica e letteraria locale e attualizzazione antropologica” scritto da Ferdinando Mirizzi e contenuto negli atti del convegno “Bari-Santiago-Bari. Il viaggio, il pellegrinaggio, le relazioni” (Edizioni Compostellane, 2020).
In che rapporto stanno questi canti con le regole della Chiesa ufficiale?
Questi canti erano destinati ad azioni paraliturgiche: processioni, pellegrinaggi e devozione ma non erano ammessi nelle solenni funzioni religiose e nonostante il proliferare di canti legati al tema della Passione, della Natività, di canti mariani, solo il concilio Vaticano II del 1965 abolirà la distinzione tra ciò che è solenne ciò che è non solenne. A parte alcuni religiosi che, come Don Diego Carlucci di Altamura, avevano avuto la sensibilità e la lungimiranza di considerare l’importanza di questi canti, la Chiesa ufficiale prendendo le dovute distanze, ha tollerato questi canti perché veicolavano le regole e la dottrina,
La tua sensibilità nei confronti dei testimoni del canto popolare e della sua trasmissione è nota, come hai affrontato il lavoro di rilettura?
Nel mio lavoro di rilettura ho cercato come sempre di rimanere fedele al senso, di non stravolgere i significati profondi che questo tipo di canto veicola, consapevole che questa è la forma di rispetto più vera che devo a chi mi ha trasmesso tutto questo. Questa volta, sempre temendo di dissacrare, sciupare, rovinare, sono stata maggiormente consapevole di maneggiare qualcosa di particolarmente prezioso che necessitava particolare cura.
C’è un brano che più di altri può rappresentare l’essenza profonda dell’album?
Ogni brano è una parte scelta, pensata di questo racconto, ma sicuramente il brano eponimo dell’album rende l’essenza della religiosità popolare, la fatica del cammino, l’invocazione, la disperazione, la richiesta di aiuto, ma anche la speranza, la possibilità di un miracolo, la fede nonostante le forze avverse, la forza di andare avanti.
“Pane nostro” è un canto di composizione. Come nasce?
Nella religiosità popolare, il sacro è nella quotidianità, nei gesti, nel lavoro. Il pane è sacro nella cultura contadina, è fortemente e potentemente simbolico. Fare il pane in casa era una pratica consueta a casa mia, mia madre, che attualmente ha 87 anni, impastava anche trenta chili di pane alla settimana per la sua
numerosa famiglia, ripetendo ogni volta con solennità gesti accompagnati da semplici parole di benedizione dell’impasto, prima di lasciarlo coperto a lievitare. Questo canto nasce con lei, nasce dai suoi modi di dire, che non sono solo i suoi, nasce dalle sue parole che oggi ascolto con particolare avidità che raccontano questa pratica antica, nella sequenza precisa di quelle azioni ricche di metafore, di onomatopee tipiche della lingua dialettale che sembra non appartenerci più
Quali sono le differenze sul piano vocale rispetto al tuo precedente lavoro e a quelli con Uaragniaun?
Nel mio precedente lavoro, “Cillacilla”, un viaggio nei canti dell’infanzia del mondo agricolo-pastorale, la vocalità era coerente con quel tipo di materiale fatto di filastrocche, giochi di parole, di suoni, di ritmi, nei vari lavori fatti con Uaragniaun, la vocalità si è dovuta adattare ai diversi registri che di volta in volta abbiamo voluto creare in relazione alle diverse tematiche. In “Stella ariènte” a tutto questo si è aggiunto un maggiore coinvolgimento emotivo per ragioni non facili da spiegare in termini razionali.
Sul piano strumentale è un lavoro molto articolato, a cui concorrono strumenti di differente collocazione sia temporale che geografica? Come si è sviluppato il lavoro di scrittura e arrangiamento?
L’album offre un ampio ventaglio di colori musicali. Il mio profondo ringraziamento va agli eccellenti musicisti che hanno dato un prezioso contributo a questo lavoro, senza di loro non sarebbe stato possibile.
Abbiamo lavorato a distanza, facendo tesoro della moderna tecnologia superando distanze geografiche e isolamento. Partendo da forme embrionali, tracciando linee spesso con la sola voce o con voce e chitarra di Luigi Bolognese, analizzando il tipo di brano e la forma che volevamo esso prendesse, abbiamo successivamente pensato a possibili strumenti e musicisti, proponendo e accogliendo il loro entusiastico sostegno che mi ha sempre inorgoglito e anche un po’ intimorito. I canti della Passione, per esempio, sono stati affidati alle elaborazioni di Marco e Angela Ambrosini, ed Eva-Maria Rusche e Dustmann; abbiamo coinvolto Savoretti, La Volpe, Pipino, Berardi, La Manna per brani caratterizzati da sonorità più mediterranee, abbiamo avuto il privilegio di avere in “San Jacque de Galizia” Quito Gato e Luciana Elizondo, e in un buon nucleo di brani, gli amici Uaragniaun: Teot, Giordano e Colonna che ha anche curato il progetto grafico.
In che modo i dipinti di Jennifer Bell - in copertina e all’interno del libretto - “raccontano” aspetti salienti di questo lavoro musicale? Come li avete scelti?
I dipinti di Jennifer Bell, pittrice canadese vissuta ad Altamura per un periodo della sua vita e ora ritornata nel suo paese di origine, sembrano rispondere esattamente all’esigenza di un racconto sobrio di una spiritualità senza fronzoli ma densa, profonda, essenziale, senza essere didascalici e descrittivi. Mi ha immediatamente affascinato la sua prospettiva nel rappresentare un dolore così umano anche nelle
immagini sacre, la devozione e il quotidiano, la speranza nel mondo bambino e l’interrogativo dello sguardo, quasi un racconto nel racconto e tutto al femminile, io di qui lei di là in una meravigliosa consonanza.
“Stella ariènte” è anche un progetto live?
Lo abbiamo suonato dal vivo la scorsa estate per “Suoni della Murgia 2021” con buona parte dei musicisti e con il trio barocco di Marco, Angela Ambrosini ed Eva Rusche ad Ancona per il “Festival Mediterraneo” e a Lequile per il Festival “Mare Aperto”. Certo, riuscire ad avere tutti i quindici musicisti non è cosa semplice. Però, è uno spettacolo modulabile, vedremo. Intanto, auguriamoci che tutto vada per il meglio per l’arte e la cultura. In chiusura, consentitemi di ringraziare Claudio Carboni e Riccardo Tesi per aver prodotto “Stella ariènte” per Visage Music.
Ciro De Rosa e Alessio Surian
Maria Moramarco – Stella ariènte (Visage, 2021)
Già al primo sguardo, la copertina del nuovo album di “Stella ariènte” racconta nitidamente e poeticamente uno spazio che è ad uno tempo dell’ordinario, dello straordinario, del sacro. C’è la tavola imbandita della festa e c’è la sofferenza del Cristo sulla croce che è parte della casa, anche e soprattutto nei giorni di festa. E c’è la corona sulla testa del festeggiato, col suo colore d’oro che rimanda a quello delle stelle appese in alto, ai due lati della tavola, ad oriente e ad occidente del Cristo. Al senso del sacro sposato ad una concreta materialità veicolato dalla copertina, fa eco, con piena coerenza, l’ascolto degli undici brani raccolti da Maria Moramarco e arrangiati, con arte da cesellatori, di alcuni dei quindici musicisti coinvolti nelle registrazioni: Luigi Bolognese (chitarra), con cui collabora da oltre quarant’anni, Angela e Marco Ambrosini (nyckelharpa) e Adolfo La Volpe (cetra corsa, cumbus). Il libretto che accompagna il CD si rivela un prezioso compagno di viaggio che offre tutti i testi dei canti e la loro traduzione in italiano, inframmezzati da sette tavole di Jennifer Bell che, mano a mano che si susseguono gli ascolti, si rivelano cornice e contenuto dei brani musicali. In apertura, “Stella ariènte” restituisce subito l’intensità, il senso di trascendenza che intreccia quello di concretezza di questo lavoro musicale, raccontando in quartetto un voto a Madre Maria. Le percussioni di Francesco Savoretti e le corde di Adolfo La Volpe restituiscono l’energia dell’atto di devozione, il suo incedere solenne e faticoso, mentre la fisarmonica di Alessandro Pipino e la voce alta e vigorosa di Maria Moramarco rendono palpabile il crescendo che avvicina anche l’ascoltatore al luogo del pellegrinaggio, da raggiungere a piedi scalzi. Poi, spazio alle voci: dalle registrazioni effettuate negli anni Sessanta da Stefano D’Elia e Grumo Appula giunge una voce femminile cui rispondono le voci di un coro, “Reggina”, canto di pellegrinaggio che sfocia nel nuovo arrangiamento per quintetto, con i compagni di sempre Bolognese e Teot e con il violino di Filippo Giordano e il contrabbasso di Carlo La Manna. Poi il tempo rallenta, si fa dolente, fa spazio alla sola voce e al pianoforte acustico di Eva-Maria Rusche per l’“Ave Maria del gran lamento”. Tre brani e tre modi diversi di rivolgersi a Madre Maria, di evidenziare sulla mappa del canto popolare punti fermi e fondamenta su cui costruire; anche composizioni musicali nuove, grazie alla penna di Bolognese in due brani che ben si sposano con gli undici che provengono dal lavoro di ricerca. “San Jacque de Galizia” legge le peripezie dei pellegrini del XVII secolo con una ballata “cantata” anche dalla viola da gamba di Luciana Elizondo. “Pane nostro” comunica, fin dal primo ascolto, l’incedere dolce e danzante di un classico della canzone popolare con un arrangiamento per settetto che chiama in causa sia i fiati, sia gli archi a dialogare con il canto che da corpo ad un concatenarsi di azioni, invocazioni e modi di dire legati ai gesti quotidiani.
Verso il finale, “Li Ventiquattr'ore” lascia che siano le percussioni a scandire con solennità le tappe della passione di Cristo cui danno voce anche gli archi, mentre “Lu Venerdia Sante” acquista una veste tutta nuova con il canto di Maria Moramarco e le nyckelharpa di Angela e Marco Ambrosini che si muovono dolenti all’interno della cornice tracciata dal pianoforte e dalla chitarra. Non cambia la formazione in quintetto per la “Serenata” finale, ma mutano il tono – che diviene intimo e affettuoso – ed i timbri della tastiera, con ampio spazio per l’interazione fra la voce e le corde, quasi ad evocare l’atmosfera di una ninna nanna, di una preghiera familiare.
Un album imperdibile, per la bellezza dei singoli brani e del loro concatenarsi nell’alternanza e nella complementarità dei diversi timbri, per la capacità di interrogare e far germogliare repertori, allo stesso tempo, locali ed erranti.
Alessio Surian
Non si può fare a meno di complimentarsi con Maria Moramarco per la meritoria attività di ricerca e valorizzazione della cultura dialettale altamurana e non solo, insieme a Bolognese e Teot che con lei collaborano per la migliore riuscita del suo lavoro. Grazie da un altamurano, spero verace.
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