Franco Fabbri, la canzone e il “sound” internazionale
Franco Fabbri (1949) vanta un curriculum eterogeneo. A Milano, ha studiato chimica in università, composizione con Luca Lombardi e musicologia con Philip Tagg, presso l’università di Göteborg. Come chitarrista, sin dagli anni Sessanta, ha avuto modo di farsi conoscere, quale componente degli “Stormy Six”. A metà degli anni Settanta, è divenuto presidente di uno dei più interessanti esperimenti musicali cooperativi nazionali, realizzati da “L’Orchestra”, impegnata nel divulgare esperienze sonore e di ricerca all’avanguardia nonché nel promuovere attività editoriali, didattiche e discografiche. Negli anni Ottanta, Fabbri ha fatto parte del Comitato Esecutivo dell’ “International Association for the Study of Popular Music” (IASM, è stato uno dei fondatori) e, negli anni Novanta, è divenuto presidente della sezione italiana del “GATM” (Gruppo Analisi e Teoria Musicale).
La sua esperienza come conferenziere è vasta, come pure l’attività didattica, sviluppata attraverso corsi e seminari in diversi conservatori di musica e università. Da rilevare anche le numerose produzioni come organizzatore di eventi spettacolari e le collaborazioni in ambito giornalistico, radiofonico e televisivo.
“Elettronica e Musica”
Nei primi anni Ottanta, il compositore Luigi Nono scrisse la presentazione di “Elettronica e Musica. Gli strumenti, i personaggi, la storia” (1982), testo nel quale si delineò l’orientamento generale degli studi di Fabbri. Un orientamento puntato all’approfondimento di ambiti della conoscenza allora ancora poco studiati, aperti alla fenomenologia della “musica totale”, solo pochi anni prima propugnata da Giorgio Gaslini. Nel testo, la discussione teorica era riferita ai campi del sapere che Non o associò a la “terza rivoluzione tecnologica”, la quale portava una nuova epoca rispetto alla complessità del “suono”: «nuova storia, nuove urgenze, nuova preparazione, nuove responsabilità, nuovi saperi, nuove scoperte». In “Elettronica e Musica” venne dato particolare rilievo alla tecnologia impiegata negli studi di registrazione e agli strumenti elettronici e digitali, compresa una panoramica sui computer. La seconda parte del libro venne specificamente dedicata alla storia degli strumenti tecnologici, partendo dagli esperimenti di Luigi Russolo con gli “intonarumori”. La terza parte venne riferita al contesto compositivo e alla fruizione della musica, evidenziando applicazioni esecutive capaci di valorizzare i diversi aspetti del suono e della sua divulgazione attraverso radio, dischi, cinema e, più in generale, attraverso il mondo dello spettacolo e della pubblicità. Inoltre, una sezione del testo venne dedicata a (brevi) biografie di musicisti e compositori legati, in vario modo, alla musica elettronica e sperimentale. Consapevole delle difficoltà nel comprendere il lessico tecnico per i non specialisti, nell’ultima sezione fu predisposto un glossario, con la specifica dei significati relativi ai singoli termini.
Il tempo di una canzone
Facendo un salto di quarant’anni rispetto a “Elettronica e Musica”, arriviamo alla sua ultima pubblicazione (al momento a noi nota): “Il tempo di una canzone. Saggi sulla popular music” (2021). L’opera comprende una raccolta di saggi scritti negli ultimi venti anni, alcuni dei quali non erano mai stati tradotti in italiano. Riteniamo sia utile affrontare la lettura dei saggi senza pregiudizi, con la predisposizione a viaggiare in campo aperto nei circuiti dei cosiddetti “sound studies”. Nello scrivere Fabbri è concreto e, come ha evidenziato, «il suo lettore-tipo non è lo specialista … il lettore al quale mi rivolgo è una persona interessata alla musica, desiderosa di approfondire quello che sa già, e che non si fa spaventare dalla complessità “naturale” degli argomenti». Nel suo campo, è un’autorità. Di certi periodi storici, di specifiche situazioni, di taluni personaggi, concerti, produttori o tecnologie, egli può parlare con cognizione di causa in prima persona, con una competenza difficilmente riscontrabile in altri autori contemporanei. Nei diversi saggi, il “genere” (termine ibrido e di nebulosa interpretazione) della “canzone/song” viene osservato da numerosi punti divista, poiché proprio l’osservazione da diverse angolazioni dei fenomeni musicali aiuta a ricostruire l’ampia area degli studi della “popular music”. In merito, è significativo il saggio “Come nascono, cambiano, muoiono i generi? Convenzioni, comunità e processi diacronici”. Spesso, Fabbri tende a problematizzare le differenti questioni musicali partendo da interrogativi, i tanti che si è dovuto porre direttamente e ai quali, come autore, vuole concorrere a dare risposte organiche, sempre aperte ai cambiamenti in atto. Il saggio introduttivo punta a chiarire che cosa è la “popular music” (e cosa non è), facendo accenno agli studi degli ultimi quarant’anni. Il filo della storia viene poi allargato, trattando della “popular music” a Napoli e negli USA, collegando il melodramma ai giorni nostri (“da Donizetti a Stephen Foster, da Piedigrotta a Tin Pan Alley”). E ancora. Quale musicologia per la canzone? Quale il rapporto tra poesia, compositori e cantautori? In merito, evidenziamo il capitolo dedicato al “plagio”, nel quale s’intersecano numerose questioni sui diritti d’autore e le possibili diatribe legali, che spesso richiedono l’intervento di specialisti chiamati dal giudice, per dirimere questioni tecniche e compositive di non facile soluzione. Il libro si conclude con un saggio titolato “Il tempo di una canzone”, nel quale vengono sviscerati vari argomenti (poco studiati) afferenti alla durata delle canzoni anche in relazione ai contenuti, ai modelli compositivi e alle esigenze di produzione. Particolarmente stimolanti sono i capitoli dedicati ai “sound studies” e ai “nuovi spazi disciplinari”, rispetto ai quali il termine “musica” può risultare limitante, cioè non sempre funzionale per descrivere la ricchezza e la varietà dello scibile sonoro (indicativi sono i volumi curati da Michael Bull, del 2013, interamente dedicati al “suono”). Senza dubbio, Fabbri ha fatto tesoro dell’orientamento semiologico della Scuola bolognese, dove spiccano autori quali Umberto Eco, Gino Stefani (con le cinque categorie di competenza) e Luca Marconi. A quest’ultimo, prematuramente deceduto nel 2019, è stato dedicato il capitolo “Suoni e segni. Un resoconto”.
Per motivi intrinsechi alla materia, “la popular music” fa spesso riferimento alla cultura inglese e americana nonché agli influssi che ha avuto sulla musica italiana a partire (almeno) dagli anni Cinquanta. In tale direzione, evidenziamo i capitoli “Ascoltando gli Shadow, quarant’anni dopo e per la prima volta (contributo scritto con Marta García Quiñones) e “And the Bitt went on”, identificando nel “bitt” un fenomeno di massa, che portò, negli anni Sessanta, a un incremento, senza precedenti, di nuove band giovanili. Del periodo, viene anche affrontato il tema delle “cover” (principalmente di canzoni in lingua inglese) le quali, grazie a specifiche norme sul diritto d’autore, per diversi anni, permisero lauti guadagni a musicisti, parolieri, traduttori e a vari professionisti dell’editoria musicale. Partendo dall’esigenza specifica di De André a ottenere determinate sonorità durante alcune registrazioni in sala d’incisione, l’Autore ha potuto dipanare diversi contenuti riferiti al “sound”, nel saggio titolato “Peter Gabriel e le tecnologie audio”. Il tema della riproduzione sonora, inoltre, è stato ripreso nel contributo “l’epoca dell’ascolto binaurale”, dedicato alla stereofonia e all’uso delle cuffie in ambito professionale e non. Infine, riteniamo utile menzionare i capitoli relativi al gruppo di lavoro “L’Orchestra” e al “progressive rock” in Italia, negli anni Sessanta e Settanta. “L’Orchestra” è stata un’associazione cooperativa, nella quale musicisti militanti si erano uniti per dare luogo a una sperimentazione professionale, che garantisse equa retribuzione ai partecipanti e, al contempo, permettesse di dare valore alla musica giovanile. Vi fecero parte musicisti quali Alberto Camerini, Alessandro Carrera, Mario De Leo, e gruppi di varia formazione quali gli “Stormy Six”, il “Quartetto di Guido Mazzon”, il “Gruppo Folk Internazionale”. Nutrite le loro pubblicazioni discografiche (alcune anche didattiche), tra il 1974 e il 1983.
Riguardo al capitolo sul “progressive rock” in Italia, Fabbri si è soffermato a ricordare il periodo nel quale suonava negli “Stormy six”, per meglio chiarire alcune coordinate storiche e i relativi contesti musicali, ma anche per sottolineare la difficoltà di comprendere così tante espressioni musicali sotto un’unica denominazione, in quanto le etichette possono essere fallaci e, soprattutto, non stabili nel tempo. Ad esempio, egli scrive, «ciò che oggi si chiama “progressive rock” era molto raramente descritto come tale nei primi anni Settanta … riassumendo, potrei dire che il progressive rock divenne noto in Italia con questo nome alla fine del 1973 o all’inizio del 1974; musicisti che suonavano quella musica e un pubblico che l’ascoltava naturalmente esistevano da prima, ma chiamavano quella musica “pop” (o prima “beat”)».
Data la varietà degli argomenti trattati (non sono stati ricordati tutti i saggi inclusi nel libro), riteniamo che l’opera di Fabbri possa essere ben valutata da un pubblico trasversale, composto da musicisti, ricercatori e musicofili in genere, compresi quelli appassionati di musica per film, rispetto ai quali pare utile ricordare i saggi inclusi nel libro, titolati “Il silenzio nel suono cinematografico”, “Quando il cinema incoronava la musica”, “Un pianeta proibito: il cinema di fantascienza e la musica elettronica”.
I testi di Fabbri sono densi di spunti di riflessione riferiti alla contemporaneità o alla storia più recente anche quando i percorsi conoscitivi sono espressi in chiave diacronica. Dato il vasto campo della ricerca, per lui risulta determinante trovare il rapporto tra numerose realtà sonore, interlacciate tra loro per i motivi più svariati: tecnici, musicali, compositivi, politici, didattici, divulgativi, sociologici, antropologici, giuridici, organizzativi, finanziari, massmediologici, economici, tecnologici (…). Da tempo, egli opera per un pieno riconoscimento degli studi sulla “popular music” in ambito musicologico, impresa non semplice, dati i riferimenti storici e la struttura che tale area disciplinare si è progressivamente costruita in accademie e università. In merito, pare significativa la citazione tratta da Voltaire, che l’Autore ha voluto inserire in apertura all’opera: «È pericoloso avere ragione quando le autorità costituite hanno torto». Una citazione colta che, senza dubbio, può trovare riscontro in diversi campi del sapere e negli avvenimenti della contemporaneità, dati i venti mondialisti e imperialisti che stanno vigorosamente caratterizzando i nostri tempi e che sappiamo, purtroppo, non influiranno sul futuro del pianeta (solo) per “il tempo di una canzone”, ma la Musica, incurante, proseguirà senza sosta il suo corso, continuando ad arricchire di profondi significati l’esistenza degli esseri umani.
Paolo Mercurio
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