Tango Macondo, Teatro Quirino, Roma 10 dicembre 2021

La continua tensione verso la sperimentazione e l’intersezione con linguaggi artistici differenti è ormai una costante nell’articolato percorso artistico di Paolo Fresu e lo dimostrano i diversi progetti discografici messi in campo negli ultimi tempi da “Heroes”, il tributo a David Bowie, e “PopOFF!” dedicato al repertorio dello Zecchino d’Oro (di cui ci occuperemo prossimamente), ma soprattutto il fortunato incontro con il teatro che ha già fruttato quel magnifico spettacolo che è “Tempo di Chet”, portato in scena al Time in Jazz e successivamente in tour in tutta Italia, riscuotendo unanimi consensi di pubblico e critica. Proprio in questo filone si inserisce “Tango Macondo”, opera teatrale prodotta dal Teatro Stabile di Bolzano per la regia di Giorgio Gallione che firma una magistrale drammaturgia che mette in scena un racconto tra reale e fantastico affidato agli attori Ugo Dighero, Rosanna Naddeo e Paolo Li Volsi e ai quattro danzatori del Deos Ensemble - Opera Studio: Luca Alberti, Alice Pan, Valentina Squarzoni e Francesca Zaccaria, con le musiche originali, suonate dal vivo da Paolo Fresu (tromba, flicorno ed elettronica) in trio con Daniele Di Bonaventura (bandoneon ed elettronica) e Pierpaolo Vacca (organetto ed elettronica). 
Il trombettista sardo, raccontando la genesi dello spettacolo a La Nuova Sardegna ha affermato: “All'origine dell'idea c'era un libro ho amato moltissimo di Giovanni Maria Bellu, “L’uomo che voleva chiamarsi Peron”, che avevo letto in un volo tra Roma e Buenos Aires. Una storia che parte da Mamoiada e racconta di questo signore che si chiamava Giovanni Piras e che arrivato in Argentina divenne, secondo una versione mai confermata, Juan Peron, il tre volte presidente dell'Argentina. Una storia molto bella e affascinante. Purtroppo, sul palco non avrebbe funzionato. Il giallo imbastito da Bellu non si presta per essere portato a teatro. Allora sono andato a lavorare su un altro libro, “Il venditore di metafore” di Salvatore Niffoi. Una libera interpretazione perché ho mantenuto Mamoiada come luogo immaginario di partenza, con il carnevale le maschere e i mamuthones. Poi però sono andato oltre, con un lavoro in cui si possono ritrovare Màrquez, Borges e ovviamente Niffoi, che ha dato il via a tutto il progetto”. Dopo il debutto sul palcoscenico del Teatro Stabile di Bolzano ad ottobre, l’opera è stata rappresentata al Teatro Carcano di Milano, al Teatro Comunale di Monfalcone, al Teatro Zandonai di Rovereto e, infine, è approdata al Teatro Quirino a Roma, dove
abbiamo avuto il privilegio di assistere alla replica di venerdì 10 dicembre. Visto dal vivo, lo spettacolo è una perfetta alchimia di forme d’arte differenti con teatro, danza e musica che si intrecciano in un tutt’uno a comporre una narrazione di grande suggestione che rapisce letteralmente per oltre un ora. La prima parte dello spettacolo ruota intorno alle suggestioni del libro “Il venditore di metafore” di Niffoi con Agapitu Vasoleddu, detto Matoforu, che gira la Sardegna per vendere le sue metafore insieme al suo grande amore Anzelina Bisocciu, la sua cantatrice. La povertà estrema di Mamoiada, il paese in Barbagia del leggendario Carnevale e delle sue maschere diaboliche e grottesche, li induce a decidere di andare via ed imbarcarsi per un mondo nuovo, il Sud America. Nella seconda parte la narrazione prende si allontana dal racconto dello scrittore sardo, per raccontarci il viaggio fantastico “tra il delirio e la geografia” che conduce Mataforu e Anzelina fino al nord della Colombia, dove fondano Macondo, luogo nato dall’immaginazione onirica di Gabriel García Márquez e dove ruotano le vicende di “Cent’anni di Solitudine”. Il racconto è un vortice di parole, suoni, danze e tradizione popolare, attraversato da un immaginario filo invisibile che lega realtà e fantasia, magia e tragedia,
tradizioni arcaiche e contemporaneità, Sardegna e Sudamerica, un universo che non conosce tempi e confini, sorretto magistralmente delle composizioni e dalla tromba di Fresu che dialoga con il bandoneon argentino di Di Bonaventura e l’organetto sardo di Vacca, ora incorniciando la brillante recitazione di Dighero e della Naddeo, ora accompagnando le danze dell’Deos Ensemble. Ulteriore peculiarità ed unicità dello spettacolo è l’utilizzo di scenografie mobili che gli stessi attori compongono e scompongono creando le diverse ambientazioni in cui prendono vita le diverse scene che si susseguono ad un ritmo ora frenetico ora più mesto e tenute tra arditi climax e spaccati riflessivi. Insomma “Tango Macondo” è un viaggio alla ricerca di un tempo perduto in cui le storie erano balsamo per le fatiche della vita quotidiana nei campi e sollievo dalla povertà, ma è anche un monito per riscoprire la necessità del racconto e dell’ascolto. 


Salvatore Esposito

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