Del poco o niente che deve bastare, del latte di capretta mescolato alla ricchezza dell’ironia, in un’epica che non si arrende. Bisogna dire, purtroppo, che il ragionare “per categorie” non è certo morto con la fine del nazismo, come ci dimostra ovunque sia la Grande Storia che la piccola storia quotidiana anche attuale. Piace sempre tanto individuare “il nemico”. La suggestione fa ronzare nell’orecchio la voce di Fabrizio de André che riprende il Canto del Maggio "per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti”. E come non ripensare alle parole cantate da Georges Brassens, in “Mourir pour des idées” o ne “La ballade des gens qui sont nés quelque part”. Ma nelle guerre a morire sono le singole persone, così come nella Shoah non sono morti “sei milioni di Ebrei” ma è morto Mordechai Gebirtig, sua moglie Blume, le sue due figlie Shifre (Carlotta) e Chawa (Eva), assieme a tantissimi altri che avevano un nome, erano nati in luoghi, possedevano volti, lavori, caratteri, amici e passioni differenti, simpatie, antipatie, amori finiti bene, finiti male o mai cominciati. Questo di cancellare le identità è un ulteriore scempio che compie ogni guerra e il suo spettro si aggira ancora.
“Al fuoco, fratelli, al fuoco! Il nostro shtetl brucia! Un vento corre maledetto, sibilando alimenta il rogo. Il nostro shtetl brucia! E voi ve ne state fermi a guardare intorno con braccia incrociate. Le lingue di fuoco hanno ingoiato oramai qualsiasi cosa. Il nostro shtetl brucia! Al fuoco, fratelli, al fuoco! Potrebbe essere che venga il giorno che la stessa sorte di questo shtetl tocchi anche a noi, andare in cenere fra le fiamme, dopo una battaglia restano solo muri anneriti e la desolazione. Al fuoco, fratelli, al fuoco! L’aiuto è solo in se stessi. Se questo shtelt vi è caro, spegnete il fuoco con il sangue, siatene capaci. Il nostro shtetl sta bruciando!”
Undzer Shtetl Brent
Przytyk dove viveva Mordechaj era un villaggio dalla popolazione per il novanta per cento ebraica e dove si verificò il più violento e atroce pogrom di tutta la Repubblica Polacca nazionalista e fascista in mezzo ai due conflitti mondiali. E’ impressionante considerare che la profetica canzone “Il Nostro Shtetl Brucia” venne scritta nel 1938 e quindi ben prima della dichiarazione d'inizio della seconda guerra mondiale ed è toccante la fiducia nell'essere umano che ne traspare nonostante il dolore. Il saper deridere il trionfo militare presente guardando oltre ad esso, l’immaginare la sua disfatta a venire, richiamando i fratelli alla forza delle loro più profonde certezze come mezzo supremo per varcare ogni minaccia. Addirittura, le note iniziali della canzone sono prese dal segnale dei pompieri di Cracovia che percorrevano di continuo in quegli anni le strade della città, al suono acuto della tromba. Dopo che la sua famiglia venne sfollata da Lagiewniki nel vicino ghetto di Podgorze, Gebirtig scrisse il testo di “Gehat hob ikh a heym” (Una Volta Avevo Una Casa) nel maggio del 1941. Sottolineando il fatto che egli non possedeva assolutamente niente di valore o che potesse interessare agli aggressori e di come contemporaneamente fosse contento delle proprie umili condizioni. Queste erano ben poca cosa rispetto alla insicura e crudele nuova realtà di vita che lo aspettava e che lui paragona ad una calamità. “Una volta avevo una casa, un piccolo spazio confortevole, poca cosa come si confà ad un povero, stavo stretto alle radici di quest’albero e lì vivevo in povertà facendo del mio meglio. Una volta avevo una casa, una stanza, un posto dove mangiare e lì ho vissuto tranquillamente per tanti anni, intorno avevo buoni amici e compagni, una casa che era colma di musica e canti. Poi sono arrivati con inganno, odio e morte e hanno distrutto l’umile casa che avevo costruito con anni di gran fatica, in un giorno solo l’hanno distrutta. Poi sono venuti come viene la peste, mi hanno scacciato dalla città con moglie e figli, mi hanno lasciato senza casa, senza nido, senza neanche sapere il perché, per quale colpa. Una volta avevo una casa, ora non ce l'ho più, la mia rovina per loro è stato un gioco, cerco un'altra casa, ma è così difficile, non so dove andare e per quanto tempo ancora.” Contro massacri e soprusi, contro gli sforzi di sradicare un popolo intero dalla faccia della terra e da ogni umana memoria, molti ebrei tentarono di opporsi creando clandestinamente giornali, sistemi d’istruzione, istituti culturali. Oppure raccogliendo al fine di salvaguardarli, documenti e archivi. Infine, più semplicemente continuando in segreto ad osservare tradizioni, feste e rituali. Mordechaj Gebirtig lo fece anche scrivendo canzoni, senza mai trarre alcun profitto dalla sua straordinaria opera artistica. O meglio, senza mai neppure pensare di farlo. Nonostante la ricca produzione e gli apprezzamenti ricevuti, vivrà
tutta la sua vita nella più totale povertà. Con l'avvento dei teatri da camera, non c’era compagnia polacca che non mettesse in scena un testo a sua firma, eppure lui mai svestì i panni del povero artigiano che era. Lavorava nella bottega di mobili usati del fratello Leon, come restauratore o almeno finché la salute glielo permise perché soffriva di angina pectoris e diabete. Durante la Prima Guerra Mondiale prestò anche opera di infermiere nell'ospedale militare di Cracovia e lì venne in contatto con ungheresi, serbo-croati, cecoslovacchi, rumeni e conobbe le loro melodie popolari. Una parte delle sue canzoni è andata irrimediabilmente perduta ma dotato come fu di un così grande talento, ha lasciato comunque alle generazioni future una inestimabile documentazione poetica delle vite e dei costumi degli abitanti di Kazimierz, l'antico quartiere operaio ebraico di Cracovia. Ascoltandole, non è difficile comprendere il motivo per cui anch’esse venivano percepite come “popolari” e rappresentino ancor oggi veri e propri atti di accusa contro qualsiasi ideologia distruttrice o prevaricatrice. Provenendo da un ambiente umile e non avendo potuto studiare musica, non conosceva lo spartito e non sapeva scrivere le note, si aiutava con un flautino e gli amici, soprattutto Julian Hoffmann trascriveva su carta le composizioni. La sua fu una qualche forma di resistenza spirituale di fronte alla violenza e l'essere stato freddato per strada lo preservò almeno dall’orrore del campo di concentramento, riservato alla moglie e alle due figlie maggiori. Comunque, nemmeno i campi di concentramento hanno fermato la musica. Anche il cosiddetto “violino della Shoa” o “violino del mistero” a suo tempo fu rinvenuto da Carlo Alberto Carutti a Torino presso un liutaio. Aveva intarsiata nel legno una stella di madreperla e celava al suo interno, in fondo alla cassa armonica, un cartiglio con il pentagramma, le note di una melodia e una breve, incredibile scritta: “Der Musik Macht Frei”. Tra queste note c'era una serie di cifre, corrispondenti al numero di matricola di Enzo Levy, violinista poco più che ventenne, deportato insieme alla sorella Eva Maria, che si suicidò lanciandosi contro il filo spinato ad alta tensione del campo. E sopra il pentagramma, è disegnato proprio un filo spinato. Quel violino oggi è conservato al Museo Civico di Cremona. Qualche anno fa ho assistito al Teatro Bibiena di Mantova a “Songs for Eternity: Le canzoni scritte nei campi di concentramento e raccolte da Francesco Lotoro” con Ute Lemper e Moni Ovadia, quella sera quel violino tornò a suonare. C‘è solo da auspicarsi che anche le canzoni di Mordechaj Gebirtig possano un giorno godere della meritata statura letteraria di quelle di Bertolt Brecht, visto che molto spesso attingono dal medesimo pozzo letterario. Anche se lo yiddish è una lingua in via di estinzione, la tremenda miseria ebraica descritta da Gebirtig è appena l'altra faccia di quella che continuano a vivere milioni di persone. E come per gli orrori, anche i sentimenti non mutano con il mutare delle generazioni.
Flavio Poltronieri
Tags:
Memoria