Dell’intesa all’interno del trio e dell’energia musicale che sprigionano i Tamala avevamo avuto esperienza diretta in occasione del bel concerto al teatro Candiani di Mestre ad inizio 2019. Il piacere nell’ascoltarli si conferma con l’uscita di “Lumba”, il loro secondo album, registrato in parte in studio e in parte dal vivo. In mandinga, “lumba” significa il grande giorno, quello in cui cambia il modo di fare le cose: in questo caso, si tratta di un invito ad una condivisione equa di quanto abbiamo a disposizione e di provare guardare a chi consideriamo diverso con gli stessi sentimenti che offriamo a chi sentiamo affine a noi, verso un mondo in cui tutti abbiano il diritto di vivere.
Le prime due canzoni, “Yanoul” e “Sira”, mostrano uno splendido amalgama musicale fra la kora di Bao Sissoko e il violino di Wouter Vandenabeele – una dozzina d’anni di collaborazioni alle spalle - al servizio del ricco ventaglio timbrico della voce di Mola Sylla, a tratti abbinata anche a quella di Sylvie Nawasadio. Si tratta di brani caratterizzati da melodie accattivanti e ben ritmate, ma di cui vale la pena leggere (nel bel libretto trilingue francese-inglese-olandese) anche il messaggio veicolato dalle strofe in wolof e soussou. In entrambi i casi si affronta il tema del matrimonio: in “Yanoul” quello della poligamia, interrogata facendo ricorso ad un proverbio che è anche un monito, “Non metterti sulle spalle un peso eccessivo rispetto a quanto puoi portare”; con “Sira” a essere celebrata è l’intelligenza,
quella di un giovane povero, ma che sa decifrare un enigma che gli consente di sposare l’amata, proveniente da una famiglia nobile – a noi viene offerto di dipanare le emozioni veicolate dalle tre linee melodiche espresse da voce, kora e violino e dal loro intrecciarsi.
Il clima cambia e rallenta con “Picce Mi” che accoglie un secondo ospite, Oliver Vander Bauwede e la sua armonica dai toni blues. La canzone segue le migrazioni di un uccello e da voce alle sue spiccate capacità di osservazione, in particolare per l’iniquità con cui le risorse sono distribuite nel mondo e per come questo generi ipocrisia e discriminazione nei confronti di donne, bambini e di chi si trova in una condizione di vulnerabilità, soprattutto dove la terra è stata eccessivamente sfruttata.
Ai due ospiti precedenti si aggiunge il coro Halleluja nel brano omonimo che prova a proporre – in modo gioioso e ricorrendo sia al wolof, sia al francese - un terreno comune fra diverse religioni, a partire dall’esperienza personale di Mola Sylla in Senegal: pur cresciuto in una famiglia musulmana, il padre scelse per lui una scuola cattolica dove lo affascinarono i canti ed i cori di matrice cristiana.
L’ispirazione biografica percorre anche la dolce “Fandye” - cantata in soussou e dedicata a Bintou, nipote di Mola Sylla, cresciuta in Guinea Konakry, terra natale del padre – e “Diarra”, una canzone che ringrazia gli antenati e Boundou, la regione orientale del Senegal, da cui viene Bao così come la nonna e la madre di Mola.
Nel gioco dei contrasti, “Fan Soto”, come, in chiusura dell’album “Nyayele”, propongono il lato più intimo e solo strumentale del gruppo, soprattutto nella ricerca del dialogo fra due strumenti a corde, kora e violino, solo apparentemente distanti fra loro, ricchi di tessiture complementari
In “Tule, Tuul” c’è spazio per una terza ospite, la voce intensa di Mari Kalkun che alterna strofe in estone a quelle in wolof di Mola Sylla, un affascinante invito ad ascoltare quel che narrano l’acqua e il vento.
L’attenzione per l’ingiustizia sociale torna in “Tolof Tolof”, che in wolof significa “chi vive nella miseria”. La kalimba ed i toni più bassi della voce di Mola Sylla invitano all’ascolto dei bambini che in Senegal sono costretti a mendicare, lasciando poi spazio a kora e violino che raccontano, aldilà delle parole, la precarietà di quella condizione.
Alessio Surian
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