Enzo Gragnaniello – Rint’’o posto sbagliato (Arealive, 2021)

Il ritorno di Enzo Gragnaniello, a distanza di due anni da quel “Lo chiamavano vient’e terra” che gli valse la quarta Targa Tenco della carriera, coincide perfettamente con quello che ci si aspetterebbe da un suo disco. E certamente non perché sia un lavoro banale o scontato. Anzi, anticipando di qualche riga il racconto vero e proprio del suo “Rint’ ‘o posto sbagliato”, si può dire da subito che questo album raggiunge una ulteriore tappa nella ricerca sonora del maestro partenopeo, segnato com’è da venature elettroniche. La conferma della sua indiscutibile classe ci arriva dal dato letterario: uno spaccato lucido della giungla urbana che ci circonda, raccontata con un raffinato e verista artificio regressivo. Ma andiamo nel dettaglio, partendo, segnatamente, da “Rint’ ‘a na guerra”, che si snoda lungo un sinuoso pattern ritmico, dinamizzato dai fraseggi blueseggianti della chitarra elettrica e dagli ostinati della tastiera. A coronamento del tutto, arriva la voce di Gragnaniello, trascinante, profonda, graffiata, sofferente: praticamente una perfetta fotografia del testo. Ad impreziosire “Chest’succer’” c’è la voce di Raiz. In questo caso, ci troviamo di fronte ad un pezzo dall’atmosfera cupa e densa, in cui la linea di basso fa da perfetta amalgama fra tutti gli strumenti, mentre i fraseggi della mandolina e della chitarra elettrica fanno da struggente contrappunto. È sempre una mandolina dal sapore arabeggiante a trascinare “Luntano” (“Luntano, nun se po’ sta’ luntano/ Luntano ‘a chesta terra e ‘a chi me vo’ semp’vicino/ Luntano io stong’ pe’ lavoro/ e nu’ lavoro ‘o trovo pure addò ce sta’ l’ammore). L’atmosfera è permeata da un malinconico senso di lontananza, reso alla perfezione dalle asfissianti trame elettroniche che costruiscono il tappeto ritmico. “So nat’ ‘cca”, commovente rivendicazione di amore verso la propria terra, è squarciata dalla voce sanguigna di Gragnaniello, che poggia su una viscerale linea di basso, colorata dai contrappunti della mandolina e di una sabbiosa chitarra elettrica, in un brano dall’incedere quasi dolente. Povero bene” è sorretto da uno strumming di chitarra acustica dal sapore sudamericano, su cui entrano, dirompenti, le svisature di mandolina e chitarra elettrica. Menzione speciale anche per i glissati che segnano la linea di basso e che fanno decollare definitivamente l’arrangiamento. Giro di boa dell’album è “E’ sett’juorn’” (“O’ sest’juorn’ truvaje na grotta, sentev’l’eco ca ‘o ruspunnev’/ E appriess’ appriess’ diceva ammore e dint’ ‘o scuro truvaje nu sciore”), elegante filastrocca sorretta dalla chitarra acustica e colorata da uno struggente violoncello. Su “O’ razzism’” (È ‘na forma ‘e pensiero sbagliat’, nun solo è distorta, ma è pure malata/ Nun esistono cure e dutture pe’ chi tene troppa paura d’ ‘o sole”) ritorna la voce potente di Raiz, che, insieme a Gragnaniello, costruisce un incastro vocale graffiantemente perfetto. Il pezzo è giocato su un interessante contraltare timbrico: al levare acido della chitarra elettrica risponde il solo della mandolina. Notevole l’intera sezione ritmica, resa incessante dai fill della batteria e da una tempestosa linea di basso. Ad accompagnare “Pe tutt’ ‘e ‘vvote” (“Voglio canta’ pe ‘sta terra malata/ pe tutt’ ‘e ‘vvote che l’hamm’ sfruttata/ pe tutt’ ‘e ‘vvote che l’hamm’mangiata/ pe’ tutt’ ‘e ‘vvote che l’hamm’ ‘nguajata”) è, anche in questo caso, un clima malinconicamente terroso, segnato dall’incedere dimesso di un arpeggio acustico, cui si contrappongono una metrica serrata ed un basso molto marcato. L’apertura melodica che scandisce il ritornello, ad opera di una commovente sezione archi, è un raggio di sole in un brano con la pioggia dentro. Altra collaborazione splendida è quella che compare in “Suonn’”, dove canta il Maestro Peppe Barra. Un episodio, questo, contraddistinto dalle fortissime venature popolari, con un raffinato incastro fra chitarra acustica e basso, decorato dai ricami della mandolina e di una languida chitarra elettrica e sfumato da un pattern di batteria giocato sui piatti. Come era prevedibile, anche in questo caso siamo di fronte ad un incrocio vocale teatralmente incredibile: il pathos lirico di Peppe Barra smussa perfettamente tutti gli spigoli che la ruvidezza della voce di Gragnaniello crea. A seguire arriva la title- track: una vorticosa linea di basso si fonde splendidamente con una chitarra elettrica che, complice l’intervento del wah, suona quasi psichedelica, in una canzone dall’incedere ritmico e metrico molto serrato. “Scrivi una canzone per mia madre” (“Ti prego, scrivi di una donna senza stato/ che ha dato e adesso sola se n’è andata”), unico episodio in italiano dell’intero lavoro, è un toccante omaggio all’universo femminile, che si snoda seguendo le trame ritmiche di un pattern rarefatto. L’atmosfera è densa di una tensione interpretativa perfettamente resa dalle ferite di una chitarra elettrica e dalle incursioni di un trombone. A chiudere il disco ci pensa “Quant’ammore” (“E quann’se ‘ncontrano ‘e note si scioglie sta noia/ e quann’ se ‘ncontrano ‘e cor’ na spina se leva), probabilmente il passaggio più popolare dell’intero lavoro, con due chitarre classiche che tessono un delicato ricamo, aperto dagli inserimenti della sezione archi. Arrivando alle conclusioni, siamo di fronte ad un breviario di popolare resistenza musicale, segnato da una produzione raffinata, da una poeticità letteraria capace di mettere in fila versi commoventi, da una ricerca sonora carnalmente viva. Un disco che rimette al centro una intera periferia e, per questo, necessario. 


Giuseppe Provenzano

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