Federico Sirianni è un cantautore di lungo corso e un viaggiatore. Come spesso accade, in questa epoca difficile, per chi decide di vivere del frutto della propria arte (ma in effetti, è mai esistita un’epoca in cui fosse facile?), con lo zaino in spalla e la chitarra a tracolla, il cantautore si sposta per la penisola, un po’ in sordina, tra treni e corriere e qualche aereo (quando l’organizzazione degli eventi se lo può permettere). In ogni luogo ha amici che lo aspettano - come le donne dei marinai che restano in attesa in ogni porto – e che è costretto a “dimenticare” quando il viaggio riprende e l’attenzione degli occhi e del cuore si sposta necessariamente altrove. È una vita in cui si soffre di solitudine e di moltitudine, come diceva un poeta. Una vita che si ama perché è l’unica che vale la pena di essere vissuta, ma che lascia molto tempo per pensare, per desiderare, per vivere. Federico Sirianni però ha anche una base artistica, geografica e sentimentale dove tornare, e questo si scopre comunque sempre nel suo lavoro di cantautore. Si scopre anche in questa sua ultima fatica, “Maqroll”, un concept album ispirato al personaggio raccontato dallo scrittore colombiano Alvaro Mutis. E chi ama leggere lo sa: in nessun altro modo si possono incontrare le vere anime gemelle, come in un libro. Blogfoolk ha voluto saperne di più di questo incontro.
Quando hai incontrato “Maqroll” per la prima volta e, soprattutto, come?
Abbastanza per caso. Mi trovavo a Udine ospite di amici e, prima di andare a dormire, ho cercato qualcosa da leggere nella loro libreria. Tra i tanti volumi c’era questo “Trittico di mare e di terra”. Mi incuriosiva il titolo, che pareva quello di un menu da trattoria; l’autore Alvaro Mutis, che conoscevo solo di nome. In quel frangente ho incontrato “Maqroll”; credo di avere letto il libro almeno tre volte nella notte, accogliendo l’alba quasi senza accorgermene. Il gabbiere mi è stato immediatamente familiare, una piccola folgorazione. In un periodo di poca luce creativa, ho pensato che quel marinaio esperto di naufragi e della sopravvivenza ad essi potesse essere una buona guida per un nuovo viaggio. E così è stato.
E quando hai pensato che potesse essere una storia che potevi raccontare di nuovo a modo tuo?
Direi da subito. In pochissimo tempo ho divorato praticamente tutta la bibliografia di Mutis, fra romanzi e poesie, capendo due cose: il racconto di Maqroll è il racconto di un essere umano che può diventare racconto di una umanità vasta, se non intera, e che quel racconto potevo restituirlo in una forma personale: la scrittura canzone.
Fabrizio De André, in “Smisurata Preghiera” - scritta insieme con Ivano Fossati – ha citato Mutis; pensando a quanto a lui ti leghi, quanto questo passaggio e, in generale, quanto lo stesso cantautore genovese ti hanno influenzato artisticamente? E non parlo esclusivamente del disco appena uscito.
De Andrè, per chi fa il mestiere del cantautore (e soprattutto se sei di Genova), è una presenza inevitabile e, almeno per quel che mi riguarda, piacevole e non ingombrante. Come ti dicevo prima, ho conosciuto Mutis e Maqroll molto di recente e solo in quel momento ho collegato le parole di Mutis alla meravigliosa “Smisurata preghiera” di Faber. E mi ha fatto molto piacere l’idea che ci potesse essere un filo leggero che, in qualche modo, magari anche casuale, legasse generazioni diverse di scrittori di canzoni. Ma è un filo leggero che, secondo me, lega anche persone appartenenti a una stessa città, una città di porto e di mare, di partenze, di approdi e di naufragi. Forse il Mutis che torna, alla fine, non è così casuale.
Negli ultimi anni mi pare tu ti sia molto avvicinato al mondo delle cover. Lo hai fatto per una ricerca delle tue radici, lo hai fatto per amore? Lo hai fatto perché quelle canzoni avresti magari voluto scriverle tu?
Ci sono tutte queste motivazioni, anche se il termine “cover” non rispecchia esattamente il lavoro che faccio su quegli artisti che sono stati importanti nel mio percorso umano e artistico. In ogni progetto dedicato ai miei “giganti”, parto sempre dal racconto, da qualcosa che mi lega personalmente a ognuno di essi. Quando ho affrontato De Andrè sono partito da un mio incontro con lui che ero ancora bambino, ricordando i racconti di mio padre (che frequentava Fabrizio, suo fratello Mauro, Paolo Villaggio) su quella Genova in ricostruzione nel dopoguerra che, nei vicoli del centro storico, pullulava di marinai, contrabbandieri, personaggi loschi e molto romantici: quelli – per intenderci – che Arpino descriveva nel suo romanzo d’esordio “Sei stato felice Giovanni”; per lo spettacolo su Gaber ho coinvolto i musicisti del teatro-canzone che con lui hanno condiviso palco e vita per più di vent’anni, perché volevo restituire al pubblico le stesse sensazioni musicali che provavo io, quando, sin da adolescente, andavo ad ascoltarlo con mia madre nei teatri genovesi. Quindi, sì: radici, amore e anche diverse canzoni che mi sarebbe piaciuto scrivere.
Quello del gabbiere è un progetto articolato, fatto non solo di musica. È infatti anche un libro che raccoglie interventi di poeti e scrittori e, infine, uno spettacolo di teatro canzone. Per quanto ci hai lavorato? Ce lo racconti partendo da quelli che hanno condiviso le tue visioni?
Il lavoro è stato effettivamente lungo e complesso. Ho scritto tante canzoni (nel disco ne ho selezionate una decina) prima del periodo pandemico, che invece abbiamo utilizzato per immaginare un mondo sonoro adatto a questo viaggio sospeso tra cielo e mare. Raffaele Rebaudengo, musicista degli GnuQuartet e mio antico sodale e amico, si è preso la briga di produrre il disco, coinvolgendo in fase di arrangiamento (e pure di live) il producer di musica elettronica Filippo FiloQ Quaglia.
E poi, sì, il disco non è solo un disco, ma è anche un libro: ho coinvolto una serie di amici fra scrittori, poeti e illustratori, chiedendo loro di regalarmi una personale visione del tema che ricorre dall’inizio alla fine dell’album, ovvero l’incollocabilità. Ne è uscita una vera e propria antologia di cui sono molto felice. Infine, lo spettacolo, nella forma di teatro-canzone che mi è familiare da sempre e che quest’estate ha visto la produzione del Teatro Pubblico Ligure con la regia di Sergio Maifredi.
Hai scelto un suono particolare per raccontare queste storie. Ci parli della produzione artistica?
Mi piace pensare questo disco come un “concept” che, mi rendo conto, è una modalità non particolarmente in linea con la fruizione contemporanea della musica, una modalità novecentesca. Abbiamo dunque voluto trattare questo “concept” come un film a cui dare la giusta colonna sonora, che prevedesse il mare come rumore di fondo, utilizzando l’elettronica di FiloQ per restituire questa sensazione di sospensione, come se si galleggiasse tra cielo e acqua, su un vecchio cargo arrugginito, con le fiancate che cigolano e le sirene delle navi di passaggio e i versi degli uccelli che annunciano la terra. L’elettronica ha dato anche un vestito diverso, nuovo, alla mia scrittura, rispettandola però in maniera rigorosa.
Infine, questa storia ti ha ispirato semplicemente perché ti piace, o perché ti ha dato la possibilità di raccontare il tuo mare, la tua barca, le tue vele e il tuo orizzonte?
Questa storia mi ha ispirato perché la sento profondamente personale. Il mio mestiere è quello di scrivere canzoni e portarle in giro come un commesso viaggiatore. E, come il gabbiere Maqroll, cerco di guardare dal pennone più alto lo scenario che mi circonda per provare a raccontarlo a mio modo; come il gabbiere Maqroll ho viaggiato tanto e ho visto tanti luoghi e incontrato tante persone... e ogni luogo e ogni persona fanno parte di me, ma non mi appartengono completamente: questo è il senso dell’incollocabilità; come il gabbiere Maqroll conosco i naufragi e la capacità di sopravvivere a essi.
E infine, come Maqroll, vivo gli accadimenti della vita non più con le aspettative febbrili di quando si è giovani, ma con quella condizione esistenziale che Mutis definisce “disperanza”, una forma di superamento del disincanto, etica e lontana da ogni cinismo, in cui ogni lieve conquista dello spirito rappresenta una forma di bellezza e sorpresa.
Sei un cantautore di lungo corso; che significa e come si può interpretare questo ruolo e questa forma d’arte in questo momento storico?
Mi ripeto e utilizzo di nuovo l’aggettivo “novecentesco” per descrivere il mio ruolo di scrittore di canzoni, anche se sono piuttosto attento all’ascolto dei linguaggi contemporanei che mi incuriosiscono, nonostante non mi appartengano. “Maqroll” è un disco assolutamente fuori moda, controcorrente, che dovrebbe essere ascoltato dall’inizio alla fine seguendo l’ordine dei brani in scaletta; qualcosa di, appunto, molto distante dalla fruizione attuale della musica. Però ci sono dei buoni riscontri e non solo da parte dei miei affezionati o di persone della mia generazione; la cosa mi fa molto piacere. Da quando è di nuovo possibile, faccio molti concerti e quindi, forse, un ruolo in questo contemporaneo posso averlo ancora.
Impossibile non chiedere come hai vissuto questa pandemia, anche perché la risposta non è scontata. Ovviamente non è una domanda che faccia riferimento alla tua vita privata ma a quella artistica.
Ho vissuto il primo periodo come una sorta di riposo forzato ma di cui avevo bisogno dopo due anni di lavoro davvero molto intenso, mentre la seconda ondata mi ha abbastanza scosso e addormentato creativamente. Fortunatamente, come ti dicevo prima, le canzoni di “Maqroll” erano già tutte scritte.
È una domanda antica che viene spesso posta, quella in merito all’impegno dell’artista rispetto al sociale, al politico, al mondo. Tu da questo punto di vista come ti collochi? Faccio questa domanda perché mi sembra questo un momento storico molto particolare, in cui la partecipazione più che imporsi si rende semplicemente inevitabile, almeno come esseri umani e cittadini.
Ultimamente sento una specie di piccola morte dentro. Mi capita di non riconoscere più persone che sentivo vicine o che mi pareva lo fossero, assisto quotidianamente tra lo stupore e la nausea a dialettiche disarmanti sulle quali mi rifiuto ormai di intervenire. Nel disco c’è una canzone che si chiama “Una sorta di naufragio” in cui ho cercato di raccontare questi due ultimi anni strani e lividi ma in maniera storicistica, come se appartenessero a una storia di due secoli fa. La frase di chiusura è di Paul Klee e dice “Deve essere senz’altro una sorta di naufragio quando da vecchi ci si arrabbia e ci si indigna per qualcosa ancora”. Mi sembra racconti tutto.
Infine con questo ultimo album credi di esserti allontanato dal mondo del “Santo”, o “Maqroll” in fondo è il tuo santo preferito?
Quando decido di pubblicare un disco lo faccio per fermare un periodo di vita e da lì ripartire e ogni disco rispecchia profondamente quello che sono in quel preciso momento. Per cui non so se Maqroll sia il mio Santo preferito, ma è certamente il mio Santo attuale.
Federico Sirianni – Maqroll (Notamusic/Stellare, 2021)
Sintetizzare in poche righe questo progetto del cantautore genovese Federico Sirianni è una impresa molto complessa, perché si deve tenere conto di molti elementi; il rischio è perdersi, anche dietro le proprie fantasie. Perché in effetti siamo di fronte ad un progetto che permette a chi ascolta di viaggiare a sua volta, di riconoscersi, di imbarcarsi e naufragare. Quale uomo, infatti, non ha avuto nella vita l’idea chiara di essere trasportato da un’onda? Chi non ha scelto di naufragare, chi non è tornato mille volte a Itaca per poi ripartire subito verso le Colonne d’Ercole? Anche solo col pensiero, col desiderio, con la fantasia. Siamo in qualche modo tutti esseri soli, arrampicati sull’albero più alto della nave, a sistemare la vela, a scorgere per primi i delfini, gli atolli e i relitti o a perdersi in un increspato orizzonte, come il Gabbiere Maqroll. Questo album, quindi, è un lavoro che come prima cosa suscita desiderio di sogno e di poesia e già solo per questo è un’opera degna di grande attenzione. Qua non si intende dire che “Maqroll” è un lavoro poetico, ma che questo – al di là del giudizio estetico – è un lavoro intellettuale per eccellenza, un lavoro letterario nel senso stretto del termine. E non tanto perché è accompagnato da un libro che raccoglie i contributi di poeti, scrittori e illustratori (sarebbe interessante approfondire anche su questo piccolo volumetto, ma purtroppo non abbiamo né lo spazio né il tempo), e nemmeno perché è ricolmo e straripante – e molto probabilmente in maniera consapevole – di citazioni, di conoscenze, di letture, magari consumate in qualche hotel sperduto di paese... ma perché mai come in questo caso, il concept album è proprio un’opera letteraria, che nasce da un’esigenza interiore di narrare il proprio mondo attraverso storie e immagini. Non importa che si parli in prima persona o che ci si racconti attraverso le gesta di un personaggio di fantasia come il Maqroll dei romanzi dello scrittore colombiano Alvaro Mutis, come ha fatto Federico. Un’opera letteraria è tale quando quel mondo si incontra con gli uomini che hanno bisogno di qualcuno che trascriva i propri sogni, le proprie paure, i propri naufragi, il proprio amore. Questo disco vi riesce in pieno. Difficile, in questo contesto, fare un’analisi passo per passo e pezzo per pezzo. “Maqroll” è indivisibile in realtà, è un racconto e un flusso di pensieri, ricordi, analogie, malinconie, alienazioni. Si parla qui di “incollocabilità”, che è poi la condizione di chi, in ogni luogo geografico o del cuore si trovi, deve sempre e necessariamente guardare oltre la finestra e sperare di prendere il mare. Viaggiatori, artisti, pazzi, vagabondi, uomini (e donne) soli, diversi, alienati e alienisti, intellettuali, poeti: tutti siamo o potremmo essere anche solo per qualche istante Maqroll. E lo è senza dubbio Federico Sirianni, che questa volta deve essersi riconosciuto totalmente, al punto da perdere ogni inibizione, dando sfogo anche alla verbosità, che, dobbiamo dirlo, non stona mai, è in linea con il vestito musicale sempre, e qualche volta si fa smargiassa di sapere. Bisogna saperlo fare: è un gioco pericoloso che nei progetti di certi principianti rende ridicoli. E che invece nel caso di Sirianni rende autorevoli. Si apprezza infine particolarmente il lavoro non facile nella costruzione del sound di questo album: la produzione artistica del violista Raffaele Rebaudengo, compositore degli GnuQuartet, e quella elettronica di FiloQ – tutta intesa a riprodurre i suoni e anche un po’ i colori del mare – è particolarmente felice, proprio a fronte di un racconto così intenso: qui il suono non invade il testo ma mantiene una riconoscibilità; non tappeto musicale quindi, ma intreccio. E del resto una canzone d’autore è l’incontro di musica e parole, in un tempo piccolo, per raccontare storie. Una piccola opera letteraria come, ribadiamo, il Maqroll di Federico Sirianni.
Elisabetta Malantrucco